“La necessità vi costringe a numerose cose
cui la ragione non vi conduce"
Machiavelli
Callicle 2.0
“Saremo più forti e nessuno ci intimidirà”. Con queste parole Vladimir Putin ha commentato il quasi-plebiscito ottenuto il 17 marzo scorso in occasione delle elezioni presidenziali in Russia: l’89 per cento del popolo russo ha votato per lui. In Donetsk, Lugansk, a Zaporizhzhia e Kherson la vittoria è stata, se possibile, ancora più netta. Le percentuali che gli sono attribuite arrivano fino al 95% nel Donetsk, al 94% nel Lugansk, al 93% nella regione di Zaporizhzhia e all'88% in quella di Kherson. È il suo quinto mandato, dopo ventiquattro anni di potere, nonostante le proteste dei dissidenti, gli attacchi alle regioni al confine con l’Ucraina durante le giornate di voto e gli allarmi droni sugli aeroporti di Mosca. L'affluenza alle urne – secondo fonti Ansa – è stata stimata ad oltre il 73%, rispetto al 67,5% registrato nelle precedenti elezioni presidenziali, nel 2018. Che la paura abbia svolto un ruolo preminente nella definizione delle istituzioni politiche, non solo russe, è un fatto storico difficilmente contestabile: la paura offre, infatti, una delle possibili risposte alla domanda sull’obbligo politico (“perché lo Stato?”), e fu Thomas Hobbes il primo a motivare l’accordo tra gli individui, il superamento dello stato di natura e della costante predisposizione umana al conflitto, con la paura come risorsa salvifica e come principio costitutivo di una collettività. Nella riflessione politica hobbesiana la paura è un tema ricorrente e fondamentale, e lo è sotto un duplice aspetto: per un verso, la paura fornisce una motivazione di carattere prudenziale all’accordo tra le parti, al fine di evitare il rischio della morte e della guerra, rischio più che concreto data la naturale tendenza dell’uomo alla violenza; per un altro verso, più squisitamente politico, la paura rappresenta un importante ‘collante’ sociale, che – nella soluzione hobbesiana – consente al Leviatano di esercitare il suo potere assoluto sui sudditi (che per scelta razionale hanno acconsentito ad abdicare alla loro libertà), mantenendo così coesa l’intera società.
Come nello stato di natura immaginato da Hobbes potremmo pensare che oggi, in Russia, il motivo e lo scopo di chi rinuncia al proprio diritto alla libertà, o lo trasferisce allo stato, siano soltanto la paura per la sicurezza personale, della vita e dei mezzi per conservarla: come controparte per l'obbedienza dei sudditi lo Stato, che Putin incarna, promette sicurezza, all'interno e all'esterno dei confini del paese.
Qui l’unico standard di riferimento sembra essere la forza. Putin come Callicle, il politico cui Platone, in uno dei suoi dialoghi - il Gorgia - affida il compito di sfidare, mettendola sotto scacco, la filosofia socratica: per Callicle esistono solo due tipi di legge, la legge convenzionale (nomos), prodotta dalle imposizioni della maggioranza dei deboli sulla minoranza dei forti, e la legge secondo natura (physis), imposta dal "migliore" grazie alla sua forza. Le leggi, in altri termini, rappresenterebbero una vera e propria anomalia della natura, dal momento che consentono a coloro che sono naturalmente più deboli di imporsi sugli individui più forti. La norma naturale, che le leggi in modo ipocrita riescono a modificare, presume invece il dominio dei più forti, ossia di coloro che sono in grado di imporre su tutti gli altri il loro istinto di sopraffazione. Il discorso di Callicle è, da questo punto di vista, inequivocabile: gli uomini sono stati ammaestrati fin da piccoli a trattenere la loro aggressività in nome del bene comune, ma se nascesse un uomo di energia e forza superiore, capace di imporsi su tutti noi, allora brillerebbe la “giustizia di natura” (Gorgia, 483 a-e).
Come per Callicle, anche per Putin sembrerebbe valido questo standard: il più forte (per natura) governa, il più debole si sottomette. È dunque la forza l’unico diritto del mondo o, come lo stesso presidente russo ha detto il 28 febbraio 2024, durante il discorso annuale davanti alle Camere riunite del Parlamento (la Duma), “un ordine mondiale duraturo è impossibile senza una Russia forte e sovrana”?
Le cose, naturalmente, non sono così semplici, e lo scopo di questo breve articolo è duplice: oltre a ragionare sull’elemento della paura, per verificare se sia possibile intervenire e, eventualmente, interagire con essa, vorrei tornare sulla morte di Alexei Navalny, cercandone le ragioni, per evidenziare infine la rilevanza sempre più fondamentale assunta dalle pratiche di dissidenza nel mondo contemporaneo. Per comprendere pienamente questi fenomeni penso sia tuttavia indispensabile adottare una prospettiva particolare, per certi versi inedita e sempre minoritaria, e osservare la realtà da una diversa angolatura: è necessario porsi dalla parte delle vittime.
Il disincanto della Russia (e i suoi rischi)
Leonid Volkov, l'ex braccio destro di Navalny aggredito il 12 marzo a martellate in Lituania, ha affermato che la schiacciante vittoria di Putin "non ha nulla a che fare con la realtà". Temo che si sbagli.
Il disincanto del mondo è un saggio classico del pensiero contemporaneo, pubblicato per Gallimard nel 1985 da Marcel Gauchet - autore ancora troppo poco noto in Italia. Politico, potere e divisione sono i tre concetti chiave del testo, che riprende l’idea weberiana di disincanto del mondo come fuoriuscita dall’economia del religioso: lo snodo cruciale della teoria del disincanto sta nell’interpretare la nascita dello Stato come una rivoluzione che fa venire meno l’assolutezza dello schema religioso. Il fatto che ci siano degli individui detentori del potere implica che l’organizzazione e le leggi sociali siano soggette alla volontà umana, dal momento che ora possono essere modificate dai sovrani. Con lo Stato, tramite le autorità politiche, l’uomo decide delle proprie cose, e diventa finalmente artefice delle leggi della società in cui vive.
Ma dire che lo Stato ha sloggiato Dio non implica la realizzazione automatica e immediata di una autonomia politica. E proprio nella sua ridefinizione di potere Gauchet fa la differenza rispetto ad altri autori e altre interpretazioni: alla definizione tipica classica, weberiana, universalmente condivisa di che cosa sia il potere – il monopolio legale della violenza coercitiva (che poi governa la dimensione collettiva) – Gauchet ne aggiunge un’altra, meno caratteristica ma non meno rilevante in termini di ricadute pratiche: il potere si inserisce per Gauchet in un ambito ‘psico-politico’ di natura simbolica, perché rappresenta quel particolare “dispositivo” che dà forma e tiene insieme lo spazio comunitario, grazie alla costruzione simbolica di una dimensione sociale.
Sembra complicato, non lo è. La società non è solo una realtà concreta di relazioni interpersonali, essa si identifica anche – forse soprattutto – con la coscienza, la sensazione (non la consapevolezza) di appartenere a una data società. Il potere – sostiene Gauchet – è il solo che può garantire questa appartenenza. Se non ci fosse, ci sarebbe la divisione, la desunione di Machiavelli: in altri termini, il caos più totale. Il potere, religioso un tempo, oggi politico, produce ordine, e lo legittima: è un esercizio di costante riappropriazione di ordine e sicurezza. Per fare ciò esso può, peraltro, sotto nuove vesti, usare ancora la religione[1], anche se non in forma esplicita; e non credo che sarebbe peregrino fare, tra le tante già fatte, l’ipotesi che l’invasione dell’Ucraina sia per Putin un fatto profondamente religioso, come dimostra l’entusiastico coinvolgimento delle frange più tradizionaliste dell’ortodossia russa. Ecco perché le sanzioni europee e americane – basate su una concezione di Russia come attore razionale influenzabile unicamente da fattori economici – non bastano né basteranno. Quando Putin dichiara che l’”Ucraina è una parte inalienabile della nostra storia, cultura, e spazio spirituale”, sta dicendo la – sua forse unica – verità.
Putin è il solo a volersi garantire un futuro in un paese che si è sempre potuto permettere di pensare solo al presente (un presente che paradossalmente appare in ripresa economica[2]) e che, attraverso una forma di “migrazione interiore” già vista in passato (in Germania), nega la realtà di crimini e misfatti. Il ragionamento indotto dalla citazione machiavelliana che apre questo articolo spiega come talvolta un popolo possa agire anche contro il proprio interesse, quando, ad esempio, è mosso dalla paura, e dalla necessità: i russi sono sempre stati governati, condizionati dalla necessità, e le elezioni, come scrive nel suo articolo “Life After Death” Sam Greene[3], “sono state organizzate per garantire alla Russia il suo futurelessness, per creare una sensazione di straordinaria unità. La mancanza di fiducia nella comunità di coloro che credono al nuovo re-incanto putiniano non sarà ritenuta dal regime una mera differenza di opinione, ma un’autentica eresia. Da punire.
Socrate e Navalny
“In fact, I don’t think Navalny died because Putin was afraid of him.
I think Navalny died because he wasn’t afraid of Putin”
Sam Greene, Life after Death
Porsi dalla parte delle vittime non significa esserlo. Se non fosse chiaro, due esempi ce lo ricordano, e ricorderanno per sempre, in maniera cristallina.
«Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò questa accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la Città riconosce, e di introdurre nuove divinità. Inoltre è colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte». Con queste accuse Socrate fu portato in tribunale, giudicato colpevole, e infine condannato a morte, nel IV secolo a.C., in quello che può a ragione essere considerato il primo processo politico della storia (numerosi altri ne seguiranno), e a condannarlo non fu la gloriosa Atene di Pericle, ma una Atene corrotta e decadente, già sconfitta da Sparta nella lunga guerra del Peloponneso, e appena sottratta al malgoverno del regime oligarchico dei Trenta Tiranni. Nel resoconto più noto del processo, L’Apologia di Socrate, Platone descrive Socrate come “simile a nessun altro”, come un “senza luogo” (“atopos”, perchè non era mai dove si pensava che fosse, e perché non stava mai dove avrebbe dovuto), e soprattutto come esemplare (paradeigma): Apollo si serve infatti di Socrate come esempio di sapienza, una sapienza molto particolare, basata su razionalità e consapevolezza dei limiti della conoscenza; ma Socrate è esemplare soprattutto grazie alla particolarità con cui conduce la sua vita, per il suo coraggio di fronte alla morte, per la sua critica del potere politico, la sua aderenza ad un ideale assoluto di giustizia, e l’assenza di bisogni materiali nel quotidiano. Socrate non ha mai fame, non ha mai sete, non è mai stanco, non ha mai freddo, né caldo: il peso della sua dottrina vale tanto quanto il suo comportamento concreto per le vie della città, dove i giovani lo seguono e soprattutto lo emulano, ed è impossibile separare la sua biografia dal suo pensiero e dalle sue azioni.
Ma come reagì il filosofo più importante del mondo occidentale di fronte alla città che lo accusava, e che lo stava per mandare a morire? “Siatene persuasi: se condannerete a morte me, che sono appunto quale vi dico, non farete a me male maggiore che a voi stessi” (Apologia 32b-32d). L’imputato rivolge dunque alla giuria le medesime accuse (accuse di empietà e corruzione, le peggiori per un cittadino greco) che la giuria gli aveva rivolto. Come a dire “gli empi siete voi”, siete voi che venite meno a quel modello di eccellenza che era un tempo Atene, siete voi a non essere più all’altezza dei vostri ideali. Cittadinanza, civismo, appartenenza: il progetto di Socrate è radicale, perché non consiste solo nel richiamare gli ateniesi alle premesse e promesse che fondarono la città, ma anche nell’affrontarne una inesorabile revisione.
Per questo Socrate è fastidioso come un ‘tafano’, pericoloso come solo un nemico può essere, per questo, e solo per questo, deve essere eliminato: mentre gli ateniesi insistono su una passiva lealtà al governo, Socrate difende un patriottismo critico, degno di cittadini democratici migliori. Ad essere veramente problematica è quindi la sua perfezione morale: Socrate è sempre padrone di sé. Sono i suoi accusatori, non lui, ad aver dimenticato le possibilità offerte dalle loro pratiche e istituzioni: ricordatevi di chi eravate, di chi siete, di chi dovreste essere.
Ma veniamo ai voti: secondo la prassi processuale ateniese, dopo una prima votazione da parte dei giudici e prima della votazione definitiva, veniva data facoltà all’imputato stesso di proporre una pena alternativa.
Ecco i numeri del verdetto: la prima votazione vede uno scarto relativamente minimo, 280 voti di condanna contro 220 voti a favore. Con il più famoso ribaltamento “ironico” mai visto in un testo classico, Socrate propone come pena alternativa di essere mantenuto a vita a spese della città nel Pritaneo, l’edificio pubblico che accoglieva fino alla fine della loro esistenza i cittadini ateniesi ritenuti più meritevoli. Il messaggio è limpido: la mia filosofia è un servizio pubblico reso alla città, e la città mi è debitrice. Secondo e definitivo verdetto: 360 voti contro 140. La condanna a morte è effettiva, Socrate si congeda dalla città: “io vi dico, o cittadini che mi avete condannato a morte, che subito dopo la mia morte cadrà su di voi una vendetta, molto più grave, per Zeus, di quella che avete inflitto a me, condannandomi a morte. Infatti, voi ora avete fatto questo, convinti di liberarvi dal rendere conto della vostra vita. E, invece, vi dico che vi accadrà proprio il contrario. Molti saranno quelli che vi metteranno a prova, ossia tutti quelli che io trattenevo; e voi ve ne rendevate ben conto. E saranno tanto più aspri, perchè sono giovani”.
Più di duemila anni dopo Alexei Navalny, il leader dei movimenti di opposizione al Cremlino, in carcere dal 2021, muore il 16 febbraio a Kharp, nella colonia penale lK3, nel distretto di Yamalo-Nenets, la regione artica dove era detenuto. "Vi devo dire una cosa. Non siete autorizzati a mollare. Se decidono di ammazzarmi vuol dire che siamo incredibilmente forti. Dobbiamo utilizzare questo potere", aveva detto il dissidente in un appello pubblico il 25 aprile di due anni fa (ripreso poi in una clip nel film a lui dedicato da Daniel Roher nel 2022). In cella di isolamento per 27 volte – 308 giorni – dall’inizio della sua detenzione, Navalny – come Socrate con Atene – aveva svelato tutte le paure del governo corrotto di Mosca. Stesso movente, stesso coraggio, stesso micidiale ribaltamento di prospettiva: i corrotti siete voi, sotto esame, sotto processo, siete voi: “nessuno – disse in un messaggio alla figlia Daria nel 2021 – deve azzardarsi a equiparare le Russia al regime di Putin. La Russia fa parte dell’Europa, e ci sforziamo di diventarne parte. Ma vogliamo anche che l’Europa si sforzi di rimanere fedele a se stessa, a quelle idee straordinarie che ne costituiscono il fulcro. Ci impegniamo per un’Europa delle idee, per la celebrazione dei diritti umani, per la democrazia e l’integrità”.
Fedeli a se stessi, Navalny e Socrate lo sono sempre stati, fino alla fine: individui profondamente divisivi (se ne potrebbe aggiungere un terzo, se seguissimo il suggerimento dato da Pasolini nel 1964), avrebbero entrambi potuto salvarsi, e se non lo hanno fatto è stato perché hanno scelto di non farlo. Socrate avrebbe potuto fuggire da Atene, Navalny avrebbe potuto non tornare a Mosca: il primo non è fuggito, il secondo è tornato, ed entrambi sapevano quello che facevano, e lo hanno fatto dimostrando un coraggio fuori misura nel non piegarsi mai alla politica quando questa diventa il luogo dell’ingiustizia.
Navalny non avrebbe mai potuto vincere un’elezione in Russia, né portare a termine con successo alcuna rivoluzione: ma la sua imperturbabile compostezza, il coraggio e la totale assenza di paura del dittatore sono stati la sua eresia, la maggior minaccia per il potere putiniano, e la ragione della sua morte. Non martiri, Socrate e Navalny, esempi di parresia, semmai: quella pratica (anche) fisica che consiste e si sostanzia nel dire sempre la verità (soprattutto al potente di turno), nella consapevolezza del pericolo che si corre affrontando il rapporto tra sapere e potere, e nell’esposizione di sé, sempre e solo in prima persona.
Conclusioni. I rischi di un eterno presente
Nel Gettysburg Address, pronunciato il 19 novembre del 1863 per onorare i soldati caduti al fronte, il presidente statunitense Abraham Lincoln disse: “ora sta a noi vivi continuare il compito non terminato”. Le scelte di Socrate e Navalny suggeriscono, in conclusione, qualcosa di importante in merito al significato da attribuire alla paura, punto di partenza del mio ragionamento. La paura da cui una istituzione politica ha l’obbligo di tutelarci è quella che deriva dalla crudeltà degli individui, dalla sofferenza inflitta dall’arbitrio, dalla tortura, talvolta esercitata dagli stessi organi istituzionali che da essa dovrebbero preservarci. E se è evidente che un minimo di capacità coercitiva debba essere considerata come una prerogativa delle istituzioni pubbliche, lo deve essere ancor di più il fatto che la disponibilità all’esercizio della forza come deterrente alla destabilizzazione delle istituzioni non dovrebbe mai sfociare nel dominio, nella sopraffazione, e nell’annientamento delle opposizioni e del dissenso. Noi temiamo molte cose, ma temiamo soprattutto, come scrisse Judith Shklar nel suo The Liberalism of Fear, una società di persone che temono. Se in Russia a liberare dalla paura è, oggi, il potere dello Stato, Socrate e Navalny non si sono piegati, e hanno dedicato la vita e la morte alla ricerca di principi politici che fossero in grado di liberare gli esseri umani dalla paura.
E la loro morte no, non è un “triste evento” o, come ha detto la madre di Navalny, “non voglio sentire alcuna condoglianza” per questo grande eretico della politica del terrore. Ma l’eretico, si sa, prima o poi una crisi di fede la provoca anche in altri. E gli eretici sono più dei venticinquemila che hanno deposto un fiore sulla sua tomba. L’obiezione di coscienza diventerà disobbedienza civile, prima o poi. La domanda cui ogni cittadino e cittadina russi non potranno più sottrarsi, dalla morte di Alexsei Navalny in poi, non sarà più se lui o qualcun altro sarebbe stato né sarebbe meglio posizionato per governare il paese; finché Putin sarà vivo, come già fu per Stalin prima di lui, l'unica domanda per i cittadini russi potrà essere per quanto tempo ancora saranno disposti a permettere a Putin di governare. È, quindi, solo una questione di tempo.
Quanto a noi, penso che prima di poterci di nuovo permettere di pensare al liberalismo come a un progresso, dovremo tornare a costruire le basi di un liberalismo che liberi dalla paura. Se sapremo guardare alla crudeltà come al nostro vizio principale, confido che indirizzeremo tutti i nostri sforzi a diminuire le occasioni in cui può essere esercitata.
[1] Il sottotitolo del testo di Gauchet è, non a caso, Storia politica della religione.
[2] Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede un tasso di crescita dell'economia russa del 2,6% per il 2024.
[3] Cfr. https://tldrussia.substack.com/p/life-after-death. Ringrazio Giuseppina De Santis per avermi segnalato questo articolo.
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