L'etnia curda, pur con almeno 30-35 milioni d'individui e 2.500 anni di storia alle spalle, continua ad attendere la creazione di uno Stato nazionale indipendente
Il più grande popolo della Terra privo di uno Stato proprio. Figli di un Dio geo-politico minore. O, ancora, i paria del Medio Oriente. Le definizioni dei curdi si sprecano da almeno un secolo, a riprova dell'assoluta singolarità della loro posizione storico-politica. L'etnia curda, con alle spalle almeno 2.500 anni di storia, forma infatti una nazione di 30-35 milioni d'individui, che alcune stime elevano fino a 40-50 milioni, comprendendo anche la numerosa diaspora in Europa e negli Usa, oltre che nel resto del Medio Oriente. Dopo molti secoli di conflitti con i più potenti vicini (gli imperi persiano e ottomano) -che li hanno soggiogati e divisi senza però cancellarne la coscienza nazionale- la creazione di uno Stato nazionale indipendente, il Kurdistan, almeno su una parte del territorio da essi più fittamente abitato, non è mai avvenuta, nonostante fosse prevista agli articoli 62, 63 e 64 del Trattato di pace di Sevres (Figura 1), con cui fu smembrata la Sublime Porta nel 1920.
Colpa della ribellione di Kemal Ataturk a tale accordo, che portò al nuovo Trattato di Losanna (1923), dove il riconoscimento concesso alle istanze nazionali curde e armene fu cancellato. Ma colpa anche, su un piano più generale, di "interessi esterni" superiori, in sostanza quelli espressi dal colonialismo franco-britannico che portarono, giusto un secolo fa, alla conclusione degli accordi Sykes-Piqot con cui fu "ridisegnato" il Medio Oriente post-ottomano. Essi prevedevano la formazione di molti stati frammentati, più deboli e facilmente controllabili di quanto avrebbe potuto essere un grande blocco curdo coeso, irrobustito dalla sua consistenza e dalla cruciale posizione geografica.
I territori a maggioranza etnica curda coprono infatti una superficie di circa mezzo milione di chilometri quadrati (quasi equivalente a quella della Francia) estesa dal Caucaso alle pianure della Mezzaluna fertile (Figura 2 ) e sono ricchi delle due più preziose risorse contenute in questa regione: il petrolio (Figura 3) (presente soprattutto nella parte settentrionale dell'odierno Iraq, con riserve accertate per 25 miliardi di barili (ma il gigante energetico Exxon ipotizza la presenza di ben 45 miliardi: gli enormi giacimenti di Kirkuk, Mosul e Khanaqin nella regione a maggioranza curda, furono scoperti nel 1927 e contenevano allora 38/40 miliardi di barili) e l'acqua (Figura 4). Quest'ultima ricchezza è potenzialmente la più rilevante dal punto di vista geo-politico, considerato che il resto della regione ne è pressoché privo. Quindi chi controlla il Kurdistan controlla anche, indirettamente, il potenziale agricolo dei Paesi confinanti, tutti fortemente minacciati da una dilagante aridità dei suoli.
Logico che gli antichi dominatori (turchi e persiani, per quanto usciti ridimensionati dal primo conflitto mondiale) e i nuovi stati in cerca di consolidamento - con alle spalle i loro protettori coloniali europei -, a partire dagli anni 30 del secolo scorso, abbiano visto un pericolo costante e mortale in questo popolo numeroso e fortemente attaccato alle proprie radici culturali. Comuni sono infatti la lingua, la letteratura, la musica e, particolare del tutto anomalo nella regione, un ruolo di grande rilievo della donna nella società. E ancor più logico che abbiano cercato con ogni mezzo di reprimere le rispettive minoranze interne, impedendo la nascita di un "focolaio" di patria comune e negando l'esistenza stessa di un'identità nazionale (e quindi ogni ipotesi di autonomia politico-amministrativa) curda. Dinnanzi alla preclusione di tutte le attività politiche, i nazionalisti curdi hanno in genere reagito con ogni mezzo, legale e non, da una diffusa resistenza passiva ai tentativi di assimilazione fino al ricorso alla forza delle armi contro le repressioni, sia con forme primordiali di guerriglia sia con veri e propri atti di terrorismo contro le forze militari dei Paesi occupanti.
Lo scontro è stato spesso molto sanguinoso e naturalmente a soccombere sono stati sistematicamente i curdi, tanto che l'insieme delle persecuzioni, pur scoordinato e probabilmente non pianificato come tale, si può equiparare a un vero e proprio genocidio, con un costo stimabile in non meno di 300-500mila vittime. A turno, soprattutto a partire dagli anni 60, Iraq e Iran dapprima e poi Siria e Turchia hanno condotto una lotta accanita contro ogni forma di organizzazione socio-politica (e di rudimentale difesa militare) approntata dai curdi. Vediamo, paese per paese, qual è stata la sorte di questo popolo.
Iraq
I curdi si ritiene costituiscano tra il 15% e il 20% della popolazione irakena, cioè tra 5,5 e 7,5 milioni d'individui. Il mancato riconoscimento dei loro diritti politici (negli anni 30 era tollerato solo l'uso della lingua), portò nel 1946 alla creazione del KDP, Partito Democratico del Kurdistan, guidato da Mustafa Barzani, che rivendicò soprattutto maggiore autonomia amministrativa. Disattesa anche questa richiesta da parte del Governo centrale, nel 1961 iniziò la lotta armata. A metà anni '70 le divisioni interne che laceravano il KDP portarono alla nascita del PUK, Unione Patriottica del Kurdistan, guidata da Jalal Talabani, divenuto presidente irakeno dal 2005 al 2014. La rivalità tra le due fazioni (e personale tra i due leader), sfociata negli anni 90 del secolo scorso in una sorta di guerra civile strisciante ma sanguinosa, impedì di fatto un'efficace resistenza ai brutali tentativi di annientamento condotti da Saddam Hussein, specie dopo la guerra del Golfo del 1991, durante la quale i curdi dettero un notevole sostegno alle truppe della coalizione internazionale guidata dagli Usa. Il presidente George Bush sr. non si sentì tuttavia di concludere la lotta al regime baathista con il suo abbattimento, permettendo di fatto a Saddam Hussein di avviare una brutale campagna di riconquista dei territori curdi (la sola operazione "al-Anfal", secondo Human Rights Watch, avrebbe provocato da 50 a 100mila vittime tra il febbraio e il settembre 1988) con un ampio uso di armi chimiche, culminata nella strage di Halabja dove, il 16 marzo 1988, oltre 5.000 mila persone furono uccise dai gas usati dalle truppe irakene e altre 7-10mila ferite (5).
Rovesciato definitivamente Saddam nel 2003, i curdi sono riusciti a strappare ai governi centrali a maggioranza sciita, appoggiati dagli Usa, crescenti diritti politici e oggi dispongono di un'ampia autonomia regionale nel Kurdistan (governato dal 2005 da Masud Barzani, figlio del fondatore del PDK), dove amministrano le tre province di Dohuk, Irbil e Sulaimaniya. Il Kurdistan irakeno (Figura 5) oggi è di fatto una regione semi-indipendente, come dimostra la forte resistenza opposta all'espansione dello Stato Islamico verso Mosul condotta con proprie forze armate (secondo stime Reuters, sono mobilitabili fino a 200mila uomini, gli ormai leggendari "peshmerga", "coloro che combattono fino alla morte", dotati però soltanto di armamento leggero), malgrado il mancato aiuto del Governo centrale. La debolezza di questo ha permesso di allargare strategicamente il territorio sotto controllo curdo verso Ovest (unendolo alle regioni siriane di Nord-Est, anch'esse a maggioranza curda) e verso Sud-Est, dove sono posti vari importanti giacimenti petroliferi.
Un cauto sostegno a questa espansione è giunto dagli Usa, interessati a sostenere un valido alleato nella lotta allo Stato Islamico ma timorosi di indebolire la posizione della Turchia - visceralmente ostile, come vedremo, a ogni ipotesi di rafforzamento della propria minoranza curda interna - e di irritare il governo Erdogan, indispensabile per mantenere salda la posizione della Nato in Medio Oriente. Da Israele, che da mezzo secolo sostiene la lotta di un popolo che ha indebolito a fondo suoi nemici storici come Iraq e Iran, anche se ciò avviene con più riluttanza sotto i governi di Benjamin Netanyahu. E, paradossalmente, in parte dalla stessa Turchia, che ha accettato con un certo realismo (con l'evidente scopo di condizionarne l'evoluzione) la nascita di un "Kurdistan irakeno", avviando con esso floridi commerci (il 56% degli scambi della regione autonoma avviene con il vicino del Nord). Il governo turco di Recep Tayyip Erdoğan non manca però di attaccare periodicamente sul piano militare gruppi di resistenti che giudica pericolosi per i propri interessi nazionali (in cima alle preoccupazioni di Ankara c'è il temutissimo "Kurdistan allargato") (Figura 6), effettuando mini-invasioni che né i curdi né il governo centrale di Baghdad sono in grado, per ora, di contrastare.
Iran
Qui i curdi rappresentano l'11% della popolazione, per un totale di circa 9 milioni di abitanti, due terzi dei quali sunniti, dato che spiega le forti difficoltà spesso generate da un potere centrale rigida espressione dello sciismo. Dopo una dura repressione condotta negli anni '20 e '30 del secolo scorso da Reza Khan (fondatore della dinastia dei Palhevi e restauratore di un forte potere centrale persiano), nel 1946 il KDPI (Kurdish Democratic Party dell'Iran) creò la Repubblica di Mahabad, nell'Iran occidentale, con l'appoggio dell'Unione Sovietica. Il progetto però fallì dopo un solo anno per la forte resistenza iraniana e il ritiro delle forze militari sovietiche dal Nord dell'Iran. Vent'anni dopo si aprì una fase di ribellione intermittente, in concomitanza con la più generale repressione di ogni dissenso interno condotta dallo scià Reza Palhevi nella fase finale del suo regno. L'instaurazione della Repubblica Islamica (1979) ha prodotto un breve periodo di dialogo con la minoranza curda, ma la sempre più rigida connotazione sciita assunta dal regime khomeinista ha generato crescenti attriti con la componente sunnita curda, culminati in una durissima repressione durante la guerra con l'Iraq (1980-88) costata 10mila morti. La situazione è migliorata con l'arrivo al potere del presidente moderato Mohammed Khatami (1997-2005), nuovamente peggiorata con il periodo del radicale Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013) e poi ancora tornata abbastanza favorevole con l'elezione alla presidenza di Hassan Rouhani, dal 2013. Il vero punto di svolta è costituito però dal profilarsi della minaccia dello Stato Islamico: Teheran oggi guarda con favore all'azione dei militanti Peshmerga curdi che combattono contro il Califfato. La regola empirica secondo cui "il nemico del mio nemico è mio amico" non dà tuttavia garanzie sufficienti per la tenuta e la stabilità di questa estemporanea alleanza curdo-iraniana. Troppi in passato sono stati i voltafaccia del governo centrale di Teheran per generare solida fiducia: il collante costituito dallo Stato Islamico potrebbe rivelarsi effimero.
Siria
La popolazione curda è valutata tra il 7% e il 10% del totale, quindi tra 1,2 e 1,7 milioni. Ma altre stime alzano la quota fino al 15%: ciò porterebbe il totale a oltre 2,5 milioni. Prima dello scoppio della guerra civile, nel 2011, la maggior parte dei curdi viveva a Damasco e Aleppo, le due maggiori città del Paese, e nella fascia settentrionale al confine con la Turchia, formando un unicum con le regioni curde poste oltre frontiera. L'importanza di questo territorio, tanto sotto il profilo storico-politico-sociale (molti dei curdi che lo abitano sono discendenti dei profughi sfuggiti alle persecuzioni condotte in Turchia negli anni 20 e 30 del secolo scorso) quanto sotto quello strategico-militare, è testimoniata dalla tenacia con cui la città di Kobane è stata difesa per quattro mesi dall'assedio portato dalle truppe dello Stato islamico (settembre 2014-gennaio 2015), divenendo un simbolo per i curdi di tutto il mondo com'è Fort Alamo per gli statunitensi o Verdun per i francesi.
Anche in Siria la vita per i curdi è stata molto dura. Dal 1962, in fasi successive, sono stati privati di molti diritti culturali (come dell'uso della lingua e di proprie scuole) e politici, perfino della cittadinanza. Le loro terre sono state confiscate per essere ridistribuite alle popolazioni arabe, in un vasto disegno di "arabizzazione" delle regioni curde attuato dal regime degli Assad. Rilevante, in particolare, il cosiddetto "cordone arabo", creato a partire dal 1965 per una larghezza di 10/15 km e una lunghezza di oltre 300, lungo il confine turco, per isolare i curdi siriani da quelli turchi ostacolando ogni relazione politico-economica. Per questi motivi, i curdi siriani hanno lottato per decenni contro il regime di Hafez al Assad prima e del figlio Bashar poi, guidando l'insurrezione nazionale che nella primavera 2011 è sfociata nell'attuale guerra civile.
Quando, nel 2013-14, si è profilata l'avanzata dello Stato islamico in Siria e i curdi sono finiti nel suo mirino, le "unità di protezione popolare" (YPG), la struttura di autodifesa curda, hanno però stabilito una sorta di alleanza di fatto con le forze governative di Bashar al Assad e, dopo il suo intervento nel conflitto nell'ottobre scorso, anche con il corpo di spedizione militare russo. Tanto che la Turchia, sulla spinta di alcuni attentato terroristici effettuati nelle scorse settimane sul proprio territorio, ha preso ad attaccare duramente, oltre al PKK, anche le forze del YPG, pretendendo che siano considerate "terroriste" da tutto l'Occidente, malgrado i rapporti di proficua cooperazione militare stabiliti sia con gli Usa sia con la Russia. Nei territori sotto il suo controllo il Comitato Supremo Curdo, il nucleo politico-amministrativo dei curdi, sta sperimentando forme di autogoverno locale, in vista della creazione del Rojava (il Kurdistan occidentale) (Figura 7), modello di una futura regione largamente autonoma nell'ambito di un possibile stato federale in cui potrebbe articolarsi la Siria dopo la fine della guerra civile. Soluzione che sembra essere al centro di un progetto congiunto russo-statunitense di risistemazione del martoriato paese. Forse non a caso il 10 febbraio scorso il Rojava ha inaugurato a Mosca la sua prima sede all'estero. Non si tratta ancora di una rappresentanza diplomatica ufficiale, ma comunque è un segnale eloquente che il Cremlino appoggia la creazione di una regione autonoma curda quando si dovrà negoziare un accordo che chiuda la spietata guerra civile siriana. Ma l'annuncio, il 14 marzo, del ritiro del corpo di spedizione russo, priva il YPG del migliore alleato politico finora acquisito.
Turchia
In Turchia, dove i curdi costituiscono oltre il 20% della popolazione totale (con stime che giungono fino a quasi 23 milioni di abitanti secondo fonti ufficiali governative), le rivolte contro l'oppressione del potere centrale iniziarono subito dopo la creazione della repubblica, già negli anni 20 del Novecento. Alla base di questo diffuso ribellismo vi fu la politica di sistematica negazione dell'identità etnica: nomi propri e costumi curdi vietati, gli stessi termini "curdo" e Kurdistan" rigorosamente proibiti, l'uso della lingua illecito in pubblico e addirittura nel privato (tuttora il suo uso è illegale nelle scuole pubbliche). Senza scordare il termine kafkiano con cui furono ufficialmente definiti i curdi, addirittura fino al 1991: "Turchi delle montagne". Il culmine della repressione si ebbe alla fine degli anni 30, quando furono sterminati da 50 a 70mila tra curdi e Aleviti e molte decine di migliaia costretti all'esilio.
Negli anni 70 Abdullah Ocalan, emerso come uno dei principali leader curdi del dopoguerra, radicalizzò in senso indipendentista le posizioni del movimento etnico e nel 1978 costituì il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), che iniziò la lotta armata contro il governo centrale. La repressione governativa ha causato non meno di 40mila morti, 378mila profughi e la distruzione di oltre 3.000 villaggi, oltre alla condanna all'ergastolo dello stesso Ocalan, dopo la sua cattura in Kenia nel 1999. Nel 2012 sono iniziati dei colloqui di pace, sfociati il 21 marzo 2013 in una tregua, con la parola d'ordine «Tacciano le armi e domini la politica». Il PKK ha comunque conservato gran parte del proprio arsenale militare, stabilendo una sorta di alleanza di fatto con altri gruppi curdi armati, come il YPG, le unità di protezione popolare che combattono lo Stato Islamico in Siria.
La tregua tra Ankara e PKK è stata però di breve durata, anche alla luce del conflitto devastante che sconvolge la Siria. La costante azione anti-curda condotta dalle autorità turche in quel contesto (l'esempio più evidente è stato il blocco per vari mesi di ogni aiuto umanitario ai curdi assediati dallo Stato islamico nella città siriana di Kobane e il cospicuo sostegno, militare e finanziario, concesso invece a vari gruppi fiancheggiatori dello Stato Islamico, come al-Nusra, filiazione locale di al Qaida) ha portato alla rapida ripresa di azioni di guerriglia e terrorismo curdo in Turchia, cui ha fatto seguito, come rappresaglia, il più massiccio uso dell'aviazione turca dell'ultimo ventennio contro varie città curde. Dall'agosto 2015 al febbraio 2016 sono state attaccate pesantemente Silopi, Nusaybin, Hakkari, Sur, ma soprattutto Cizre, abitata in origine da 200mila persone, alla quale gli attacchi aerei hanno conferito un aspetto spettrale molto simile a quello di Aleppo: le vittime accertate con grande difficoltà da Amnesty International sono almeno 224, di cui 42 bambini, mentre acqua, elettricità e assistenza medica scarseggiano tuttora.
Le prospettive a breve-medio termine
La Turchia «combatte solo i terroristi» e «fa del suo meglio per non causare vittime civili», ha assicurato il premier Ahmet Davutoglu. Ma la realtà politico-strategica sembra sfuggita di mano a tutti. Al governo turco, che è pronto a combattere i curdi ovunque siano in armi (Iraq, Siria e sul suo stesso territorio) con mezzi che rasentano il genocidio, nel terrore che possano realizzare un embrione di Kurdistan su qualche lembo di terreno "liberato". E agli stessi curdi, i cui successi militari, in una regione nella quale i poteri statuali costituiti si stanno via via sfaldando, rendono sempre più vicina la realizzazione di un sogno perseguito con tenacia da un secolo. Ma che incautamente pensano di poter accelerare tornando a praticare (se le accuse turche si riveleranno fondate) la via sempre perdente del terrorismo.
In una sempre più probabile risistemazione del Medio Oriente in cui alcuni stati (Iraq e Siria su tutti) rischiano di sparire o di essere smembrati secondo nuove logiche etnico-religiose (Figura 8), è difficile pensare che le istanze curde non ottengano un riconoscimento almeno parziale. Una volta sconfitto lo Stato islamico, gli Usa e l'Europa dovranno onorare con il loro maggiore alleato sul campo il debito morale contratto. A ciò la Turchia (e in parte l'Iran) cercheranno di opporsi in ogni maniera, considerato che qualunque eventuale sacrificio politico-territoriale loro imposto le indebolirebbe in misura direttamente proporzionale al rafforzamento di un futuro Kurdistan. Il nuovo stato, se mai nascerà, sarà come sempre circondato da nemici pronti a soffocarlo nella culla, nella speranza che non possa crescere e irrobustirsi. Specie dopo che il ritiro russo dalla Siria priverà i curdi del più efficace alleato sul campo, rafforzando nel contempo il loro principale rivale: la Turchia.
Alla luce dello squilibrio nelle relazioni che si va delineando negli ultimi mesi tra Bruxelles e Ankara, occorre inoltre chiedersi se un ipotetico Kurdistan (inizialmente almeno siro-irakeno) non possa finalmente costituire un freno al crescente egemonismo turco sulla regione, che minaccia di compromettere organismi dagli equilibri interni sempre più fragili (la Nato) o già gravemente indeboliti (la Ue medesima). I continui ricatti politici rivolti all'Europa (la pretesa di riaprire alle proprie condizioni i negoziati di adesione all'Unione; la sfrontata richiesta di ottenere per i propri cittadini il libero ingresso nei nostri Paesi entro pochi mesi, proprio mentre il sistema Schengen è sull'orlo del collasso; l'occupazione manu militari di un'ampia parte di un paese membro, Cipro, che la Ue finge ormai da anni d'ignorare) e i rialzi di posta anche venali (come la richiesta di raddoppiare da 3 a 6 miliardi di euro gli aiuti pretesi per non riversare verso di noi altre ondate di profughi siriani) potrebbero trovare un deciso freno se ad Ankara si dicesse con grande chiarezza e franchezza che non siamo obbligati ad accogliere sempre e comunque ogni pretesa turca. Abbiamo tra le mani una carta alternativa da giocare: la minaccia di un deciso aiuto ai "paria del Medio Oriente", affinché diventino l'antemurale di un regime che persegue, nei fatti, il delirante progetto di ricostituire l'impero Ottomano.
Il jolly curdo si può dunque gettare sul tavolo. Con prudenza, ma anche con convinzione. Non sta scritto da nessuna parte che Erdogan debba assumere con noi le vesti di nuovo Brenno. Dopo anni di costanti arretramenti sul piano internazionale, la ripresa di una capacità assertiva dell'Unione europea potrebbe rinascere proprio dal Kurdistan.
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