Cosa sta accadendo in Africa? Nel volgere di soli tre anni, abbiamo assistito ad una serie di colpi di stato a catena nel Sahel (Mali, Guinea, Burkina Faso, Chad, Niger), e lo scorso agosto in Africa equatoriale (Gabon). Il Sudan è da mesi dilaniato da uno scontro tra fazioni degli apparati di sicurezza. Per cercare di capire alcune delle dinamiche in atto, Mondo Economico ha intervistato il professor Abu Bakarr Bah, direttore del dipartimento di Sociologia, Northern Illinois University e fondatore di Irpia, Institute for research and policy integration in Africa. È inoltre editore della rivista "African Conflict and Peacebuilding Review". A domanda diretta, risponde in maniera decisa:«A cosa sono dovuti i golpe? Al fallimento del progetto democratico nel contesto africano. Chiaramente, bisogna anche intendersi cosa intendiamo per democrazia».

Cosa vuole dire con questo?

«Democrazia sembra essere un termine che ultimamente non gode di buona stampa. C’è un chiaro rigurgito anti-democratico in varie zone del mondo; c’è un sentimento diffuso che democrazia indichi un’eredità coloniale. Ma per me democrazia significa fondamentalmente due cose: istituzioni che sappiano rappresentare in modo adeguato la popolazione di un paese; e capacità di buon governo, la famosa governance, come la fornitura di servizi e beni pubblici alla cittadinanza. Nessuno di questi due aspetti è riuscito a fiorire nei paesi che abbiamo citato».

Molti puntano all’eredità coloniale: stati artificiali tracciati sulla mappa specie da Francia e Gran Bretagna, senza considerazione per le condizioni e le caratteristiche locali. Non è forse questo cruciale per capire la crisi attuale?

«Ci sono due punti su cui vale la pena riflettere. Per prima cosa, sappiamo bene che si può parlare di democrazia solo a patto di avere uno stato che funzioni. Bisogna impegnarsi in un serio processo di costruzione di istituzioni adeguate che possano sostenere un sistema politico democratico. In secondo luogo, è vero: sappiamo cosa ha comportato il colonialismo. Ma bisogna lavorare ora con quel che si ha. La vera domanda è dunque: possiamo costruire solide istituzioni democratiche in Africa? Certo – e con questo risolvendo il problema dei golpe e dell’instabilità politica. Non è facile, ma è l’unica soluzione».

Potrebbe spiegare più nel dettaglio cosa intende dire?

«La democrazia è relativamente più facile in contesti come quello italiano o francese, dove – al netto dell’immigrazione – la popolazione locale è abbastanza omogenea, ovvero appartiene ad un unico ceppo etnico-linguistico. In Africa, specie quella sub-sahariana, il contesto è molto diverso: vi è un’enorme eterogeneità etnico-linguistica all’interno di uno stesso stato; spesso, per di più, senza che un gruppo abbia una chiara maggioranza rispetto agli altri, una situazione di grande frammentazione. Eppure, penso alla Svizzera, o al Belgio: pure lì vi è grande diversità linguistica, frammentazione. Ebbene, hanno trovato istituzioni capaci, dato il contesto locale, di mantenere un sistema democratico che, tra alti e bassi, funziona».

Possiamo pensare anche all’India, per citare un altro caso post-coloniale?

«Certo. L’India è forse il paese più eterogeneo al mondo. Eppure, hanno trovato delle soluzioni istituzionali per garantire rappresentanza alle varie componenti del subcontinente e mantenere un regime democratico dal 1947 ad oggi. Se Modi è una sfida per la democrazia indiana, lo è perché’ sta indebolendo, tramite la retorica di supremazia indù, proprio tali istituzioni».

Abu Bakarr Bah, docente di sociologia all'Illinois university ed esperto del Continente africano

Se dobbiamo parlare di una democrazia calata dunque nel contesto africano, di cosa stiamo parlando?

«Non possiamo ignorare differenze con il contesto europeo, chiaramente. In Africa, l’appartenenza ad un certo gruppo etno-linguistico, per quanto detto sopra, è ancora fondamentale. Fa premio sull’idea di diritti individuali della tradizione liberale. Tuttavia, con istituzioni che diano propria rappresentanza alle peculiarità e differenze locali e regionali, anche i diritti individuali verrebbero poi garantiti. Il problema è che la conquista del potere in Africa spesso vuol dire una sola cosa: il mio gruppo domina sugli altri, che sono esclusi e non hanno rappresentanza. Senza adeguata rappresentanza, non ci può essere buon governo. L’insoddisfazione popolare e il rovesciamento di regimi percepiti come espressione di un solo gruppo etno-linguistico nasce tutta lì».

In questo senso, che ruolo hanno i militari? Sono loro che spesso, in ultima istanza, rovesciano i governi.

«È inutile far finta che i militari non esistano, come istituzione e forza politica. In un certo senso, sono anzi l’istituzione fondante di qualunque stato – garantendo protezione verso l’esterno e ordine interno, per lo meno in teoria. Dico di più. Nel contesto africano, non escluderei un ruolo per l’esercito sulla falsariga del modello turco, dove per decenni i militari hanno esercitato un ruolo di ‘guardiani’ del sistema democratico. Certo, intervenivano in politica, anche in modo deciso: ma la loro lealtà era verso lo stato turco, non verso questo o quel governo. Hanno sempre mantenuto un alto livello di professionalità, ritornando nelle caserme una volta che sentivano come compiuto il loro ruolo. Potrei immaginare un ruolo simile per i militari in Africa: ma nella maggior parte dei casi, questi sono milizie a base etnica. Non hanno lealtà verso lo stato: al più verso il loro gruppo etnico che esprime il governo in carica. A volte nemmeno quello, essendo legati al despota di turno».

Cosa dire rispetto al contesto internazionale? Che ruolo ha avuto?

«Ci sono due aspetti da tenere presente. Il primo è la guerra in Ucraina. La crescita dei prezzi delle derrate alimentari e dei beni di consumo non aiuta certo economie già fragili di loro. A questo si aggiunge la penetrazione russa nell’area: non è una novità, già l’Urss era molto attiva nel continente. Non avendo grandi risorse economiche, la Russia si muove soprattutto, tramite la Wagner, nella dimensione securitaria. Questo si inserisce nell’altro aspetto che bisogna considerare: ovvero la guerra al terrorismo, specie di matrice jihadista, combattuta anche nel Sahel per circa due decenni, specie con la presenza di forze speciali francesi. È stato un momento di profondo stress per i paesi dell’area, contribuendo alla loro instabilità politica. La Russia si è potuta presentare al tempo stesso come forza anticoloniale e latrice di ordine».

Che indicazioni possiamo dunque trarre infine?

«Credo fondamentalmente due. La prima è che i popoli africani si rendono perfettamente conto di essere spesso alla mercé di interessi esterni: il risentimento è forte, e crea appunto questi movimenti anti-governativi. La seconda invece è legata al processo democratico, l’unica soluzione che vedo: ma credo fermamente che gli stati e le comunità africane abbiano la possibilità di trovare una propria e specifica configurazione istituzionale che renda possibile questa transizione».