La magistratura della Repubblica islamica continua a comminare la pena capitale ai giovani arrestati durante le proteste del movimento ‘Donna Vita Libertà’, innescato dalla morte della ventiduenne curda Mahsa Amini il 16 settembre 2022. Il 23 gennaio di quest’anno a finire sul patibolo è stato il ventitreenne Mohammad Qobadlou, accusato di avere ucciso un poliziotto durante le dimostrazioni di piazza. Se nel 2022 le condanne a morte in Iran erano state almeno 576 e nel 2023 almeno 834, Qobadlou è stato il nono giovane sceso in strada e finito sulla forca. Le sue vicende sono al centro di innumerevoli messaggi sui social network, in cui gli utenti della rete si dicono contrari alla pena di morte ed esprimono preoccupazione in merito al rischio che corrono tanti altri prigionieri politici.
Su Instagram, per esempio, la pagina dell’attivista Narges Mohammadi, insignita del Nobel per la Pace 2023 e attualmente in cella a Teheran, ha reso noto che le 61 prigioniere politiche nel famigerato carcere di Evin hanno iniziato lo sciopero della fame in segno di protesta. A condannare le esecuzioni è stato anche Molavi Abdolhamid, un noto e influente membro del clero sunnita, attivo nelle province sudorientali del Sistan e Balucistan, dove le proteste sono state tra le più violente. Il 23 gennaio, Molavi Abdolhamid ha accusato la magistratura iraniana di ottenere le confessioni dei detenuti con la tortura. Tra i recenti condannati a morte vi è anche Farhad Salimi, un uomo iraniano di etnia curda e di fede musulmana sunnita impiccato dopo quattordici anni di carcere.
In Iran, il boia lavora con assiduità, mietendo vittime soprattutto tra coloro che appartengono alle minoranze etniche e religiose, il cui dissenso si è sempre fatto sentire a causa dei molti diritti negati. La pena di morte continua quindi a essere comminata, anche a ridosso dell’elezione dei 290 deputati del Parlamento e degli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti programmata per il prossimo 1° marzo. Evidentemente, le autorità della Repubblica islamica preferiscono incutere terrore, anziché assecondare il desiderio di maggiori diritti. L’elettorato è deluso e amareggiato per le libertà negate, ma anche per la grave crisi economica in cui versa l’Iran, un Paese grande cinque volte e mezza l’Italia, con una popolazione di quasi 88 milioni, ricco di idrocarburi ma in una situazione difficile, inasprita dalle sanzioni internazionali.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la crescita economica prevista per il 2024 si aggira attorno al 2,5% e l’inflazione al 32,5%, mentre la disoccupazione si attesta al 9,6%.
Di conseguenza, nelle elezioni del 1° marzo ci si attende una bassa affluenza alle urne. In base ai sondaggi, le previsioni sono del 35% a livello Paese e del 17% per la capitale Teheran. Nelle altre città e nei piccoli centri potrebbe verificarsi una maggiore affluenza perché lì si giocano rivalità tra gruppi, partiti, etnie e famiglie e quindi la gente andrà a votare perché si sente parte di una qualche coalizione. Tutti coloro che saranno costretti a votare - impiegati, soldati, studenti - probabilmente lasceranno nell’urna la scheda bianca oppure, come in passato, scriveranno nomi di cantanti e attori. Secondo il sondaggio degli studenti Ispa, il 27,9% voterà di sicuro, il 7,4% probabilmente, il 21,9% non ha deciso, il 6,8% difficilmente voterà, mentre il 36% ha già deciso che non voterà.
L’Iran è però un Paese complesso, le previsioni rischiano di non cogliere nel segno. Di fronte alla minaccia di un’aggressione straniera, motivata dal presunto ruolo dell’Iran nella guerra a Gaza, per quella parte della popolazione che sostiene la Repubblica islamica le elezioni del 1° marzo potrebbero rivelarsi un modo per offrire il proprio sostegno alla leadership. In altre parole, votare in tanti potrebbe essere un modo per esprimere consenso nei confronti dei vertici di Teheran, e quindi dissuadere Paesi ostili – Israele e Stati Uniti - dall’attaccare militarmente.
In ogni caso, queste elezioni saranno una sorta di referendum sull’operato del governo del Presidente conservatore Ebrahim Raisi e anche sull’obbligo del velo. Ed è polemica, tra i riformisti, perché la leadership ha annunciato che potranno accedere ai seggi, e votare, anche le donne senza il velo: fermate dalla polizia morale, malmenate, frustate, uccise. Ma, quando fa comodo, utilizzate dalla destra conservatrice. Resta da vedere se e in quale misura avranno voglia di essere manipolate dagli ayatollah al potere. Le iraniane hanno il diritto di voto fin dal lontano 1963 e di fatto rappresentano la metà dell’elettorato. Erano state loro, e i giovani, a impedire nel 1997 l’elezione alla presidenza dell’ultraconservatore Ali Akbar Nateq Nouri che in campagna elettorale aveva promesso di imporre il chador anche alle bambine.
In ogni caso, i risultati di queste elezioni parlamentari sembrano abbastanza scontati, perché il Consiglio dei guardiani ha bocciato tantissime candidature di riformisti, così come era già accaduto nelle parlamentari del 2020 e nelle presidenziali del 2021. Il 1° marzo di quest’anno la partita si giocherà quindi tra la lista di Mohammad Baqer Ghalibaf (presidente del parlamento ed ex sindaco della capitale Teheran) e quella dei fedelissimi di Ebrahim Raisi, l’attuale Presidente della Repubblica islamica. Sono entrambi conservatori, ma Ghalibaf è un conservatore pragmatico in grado di dialogare e tessere accordi con l’Occidente e – all’occorrenza - di fare qualche concessione sul velo, mentre Raisi è attorniato da puritani intransigenti, anche sulla questione del velo.
Oltre che per i 290 deputati, il 1° marzo le iraniane e gli iraniani andranno a votare per gli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti incaricata, in caso di necessità, di procedere all’impeachment del leader supremo e di eleggere il suo successore. Il prossimo 19 aprile l’attuale leader supremo Ali Khamenei compirà 84 anni, non gode di buona salute e da tempo si discute del futuro della Repubblica islamica. Gli ultraconservatori vorrebbero scongiurare una deriva moderata, e per questo motivo il 24 gennaio il Consiglio dei Guardiani ha squalificato l’ex presidente Hassan Rohani (2013-2021), che quindi non potrà presentarsi alle elezioni come candidato dell’Assemblea degli Esperti, per difendere il proprio seggio.
Al momento un Iran post-ayatollah resta improbabile. Seppur anziano e malato, l’ayatollah Ali Khamenei resta saldamente al potere. È lui ad avere l’ultima parola su tutte le questioni, politica estera e questione nucleare incluse. A scalfirne la poltrona non sono state le proteste del movimento ‘Donna Vita Libertà’. Le proteste di strada si sono poco per volta ridimensionate, e hanno preso la forma della disobbedienza civile da parte di tante iraniane che rischiano la galera andando in giro a capo scoperto. È anche vero che in questi decenni gli ayatollah al potere hanno impedito l’avvicendamento dei membri del clero sciita con una generazione più giovane.
Per questo motivo, a sostituirsi all’ayatollah Khamenei e ai suoi colleghi difficilmente saranno nuove generazioni del clero e nemmeno gli esponenti di un movimento in cerca di maggiori diritti e libertà. Tutt’al più, in caso di morte del leader supremo Khamenei, si potrebbe verificare una presa del potere – più esplicita rispetto a quanto già accade di fatto – da parte dei pasdaran, ovvero delle guardie rivoluzionarie che di fatto controllano ormai la politica e l’economia del Paese. In ogni caso, l’economia della Repubblica islamica continuerà a guardare a Oriente, principalmente a causa del regime sanzionatorio posto in essere dal Tesoro statunitense che impedisce alle imprese occidentali di fare business con Teheran.
Nel frattempo, grazie alla mediazione di Pechino a marzo 2023, Teheran e Riad hanno raggiunto una convivenza pacifica, non amichevole ma di rispetto. In questi giorni i due paesi hanno infatti definito gli ultimi dettagli per il pellegrinaggio alla Mecca dei fedeli iraniani. Di fatto, si tratta di un gioco win-win sia per le autorità saudite sia per quelle iraniane. E le autorità di Teheran non possono che gioire per il fallimento della normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele in seguito al devastante attacco di Hamas in Israele lo scorso 7 ottobre e alla guerra in atto su molteplici fronti mediorientali.
A questo proposito, in merito al ruolo dell’Iran nella guerra tra Palestina e Israele, vi sono da una parte analisti che ritengono l’Iran la mente dietro al massacro perpetrato da Hamas e, dall’altra, analisti che considerano l’Iran del tutto estraneo. La verità stia nel mezzo, nel senso che l’Iran ha storicamente formato e sostenuto le nazioni e le milizie che fanno parte del cosiddetto Asse della resistenza, ovvero Hamas e il Jihad in Palestina, Hezbollah in Libano, le varie milizie sciite in Iraq, l’esercito regolare in Siria, il governo rivoluzionario degli Huthi in Yemen. Di certo, l’Iran ha ottimi rapporti con tutti loro, ma non li controlla al cento percento: sono attori autonomi, con una propria agenda.
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