Le implicazioni dell’attacco di Hamas contro Israele, così come la risposta del governo di Netanyahu, sono molteplici. E ci impongono una riflessione seria, compito difficile quando logiche di pro e contro, bianco e nero, oscurano più di quanto chiariscano. E a complicare tutto è arrivata la strage all'ospedale di Gaza con 500 morti e Israele e Hamas che si accusano a vicenda.

Su un punto per lo meno sembra esservi consenso: il raid terroristico di Hamas non ha precedenti. Il gruppo islamista è riuscito a valicare uno dei confini più controllati al mondo (con tunnel, droni, approdi anfibi, e perforazioni delle barriere in superficie) e ad infiltrare circa mille miliziani nel territorio sud-occidentale di Israele. Qui, hanno compiuto atti di efferatezza e violenza mai vista in questo contesto come scala e tipologia, torturando e uccidendo centinaia di civili. Hanno poi rapito e portato a Gaza 199 ostaggi, per lo più israeliani ma anche di altre nazionalità, inclusi europei ed americani. Nel frattempo, circa 5000 missili (probabilmente forniti dall’Iran) sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso Israele. Un’azione coordinata che rappresenta il più grande fallimento nella storia dell’intelligence israeliana, Mossad e Shin Bet in primis, fin ad oggi considerata, non senza motivo, tra le migliori al mondo.

Il rebus dell'invasione di terra

Netanyahu ha dichiarato che Israele si trova in guerra (mai in un confronto con Hamas si era arrivati a questo); ha formato un governo di unità nazionale; e ha lanciato un’offensiva su Gaza pure di inedita violenza, contemplando addirittura l’invasione di terra della Striscia.

Gli effetti dei bombardamenti israeliani su Gaza

In controluce, possiamo riflettere su quanto sta accadendo partendo proprio dalle decisioni del governo israeliano. Il quale non ha vere opzioni. Non può non fare nulla; tantomeno, figurarsi, aprire un negoziato con Hamas. Deve rispondere. L’obiettivo dichiarato sarebbe estirpare Hamas. Ma l’attacco a Gaza non può raggiungere tale risultato: niente al di là della vendetta di rappresaglia e della punizione collettiva della popolazione di Gaza. Questo per due questioni. La prima è militare e logistica: Gaza è una città di quasi 2 milioni di abitanti, ad altissima densità abitativa. Un’azione casa per casa, cunicolo per cunicolo per trovare e uccidere i militanti di Hamas potrebbe durare mesi, forse anni. I costi sarebbero altissimi: quanti civili morirebbero? Quanti soldati delle Forze di Difesa Israeliane (Idf)? I risultati sarebbero poi incerti: con ogni probabilità, i capi di Hamas hanno abbandonato la Striscia già prima dell’attacco. La seconda è ancora più complessa: la catastrofe umanitaria che sta già colpendo Gaza non farà che nutrire il risentimento e la disperazione che sono la causa del fenomeno Hamas. La radicalizzazione del movimento nazionalista palestinese – è questo di cui stiamo parlando – potrebbe generare altri attori ancora più violenti fintantoché le condizioni attuali persistono.

2007, l'anno di Hamas

È infatti difficile evincere una strategia di lungo periodo da parte di Israele nei confronti di Gaza dal 2007 (quando Hamas prese il potere) a oggi. O un progetto verso la questione palestinese in senso lato. Netanyahu si è dimostrato politico di grandissimo acume tattico nel rimanere al potere per quasi 15 anni in un sistema multipartitico a sistema proporzionale. È riuscito a fare questo incarnando un sentire diffuso nella società israeliana: sicurezza senza compromessi con i palestinesi, specie in quanto a concessioni territoriali e statualità. Ma ciò è proprio quanto il movimento nazionale palestinese chiede: autodeterminazione e sovranità. È dunque legittimo chiedersi quale fosse il disegno di Netanyahu al di là del diniego di tali aspirazioni. Disegno che infine non si è potuto che incarnare nel mantenimento ad libitum dello status quo – con tutto ciò che questo comporta, per Israele e per i palestinesi.

I 15 anni di Netanyahu

È questa una riflessione che ci conduce ad una più attenta analisi dei due campi. I quali non sono omogenei al loro interno: tutt’altro. Recentemente, proprio il governo Netanyahu ha tentato di licenziare una riforma della giustizia che avrebbe fondamentalmente alterato la separazione dei poteri all’interno dello stato. Sostenuta da partiti alla destra del Likud, formazioni dalle forti venature razziste e anti-arabe, la riforma ha generato numerosissime, estese e vibranti proteste: una parte consistente della società israeliana vede infatti nella destra ultranazionalista rappresentata di Netanyahu una minaccia per il carattere democratico del paese. Spaccatura profonda che ha fatto parlare di un sistema tribale israeliano: sionisti laici, sionisti religiosi, antisionisti ebrei ultraortodossi, e infine i quasi 2 milioni di palestinesi di passaporto israeliano (oltre il 20% della popolazione). Sono questi gruppi che hanno visioni radicalmente opposte rispetto a quanto Israele dovrebbe essere (per capirci: il paese non è mai riuscito a dotarsi di una costituzione). Alcuni analisti avrebbero paventato addirittura una guerra civile all’orizzonte. Il senso di unità nazionale dovuto all’attacco del 7 ottobre può avere allontanato, ma non eliminato, questo scenario.

Il tramonto di Abu Mazen

Dal canto loro, i palestinesi esprimono una classe politica che ora si incarna nell’antisemitismo sanguinario di Hamas oppure nella screditata e corrotta leadership dell’Anp dell’ottuagenario Abu Mazen. A differenza di quanto accade in Israele, i palestinesi non hanno accesso a libere elezioni per determinare un vero cambio di leadership. Né operano in un contesto di piena sovranità politica. Ciò determina uno iato profondo tra popolo e classi dirigenti. L’appoggio ad Hamas, probabilmente più consistente di quello per l’Anp, rimane difficile da quantificare e ad ogni modo non è certo assoluto. Hamas suscita sentimenti diversi nella società palestinese proprio perché è una collettività variegata: apprezzamento per l’opposizione armata a Israele; ma rancore per l’indifferenza con cui Hamas invita le rappresaglie israeliane; rispetto per la poca corruzione rispetto all’Anp; ma opposizione per l’imposizione autocratica di ferrei dettami islamisti.

Israele contempla ancora l'ipotesi di un intervento di terra del suo esercito a Gaza

L'asse Iran-Hamas

Possiamo dunque chiederci, come abbiamo fatto per Netanyahu, quale sia la strategia di Hamas. Vi sono tre possibili obiettivi: affermarsi come il rappresentante ultimo dei palestinesi, scalzando appunto l’Anp; attrarre reclute, contando sull’effetto della violenza della riposta israeliana; e rimarcare l’esistenza di un problema palestinese, che rimane tale anche quando la comunità internazionale sembra dimenticarsene. In questo senso, si è giustamente rilevato come l’asse Iran-Hamas avesse tutti gli interessi a far saltare il probabile accordo tra sauditi e israeliani. Questa intesa avrebbe coronato gli accordi di Abramo: il riconoscimento da parte di una serie di stati arabi (Marocco, Emirati, Sudan) di Israele, di fatto in grado di cambiare lo scenario geopolitico del grande Medioriente. Un’intesa tra Riad e Tel Aviv avrebbe comportato per l’Iran l’emergere di una compatta e ostile regione arabo-sunnita in aperta alleanza con Israele: uno scenario da incubo per Teheran. L’attacco di Hamas ha reso impossibile procedere verso un accordo: l’Arabia Saudita ha subito accusato Israele come responsabile primo delle azioni di Hamas.

Riad, mossa obbligata

Riad non poteva fare altro: se quasi tutti i regimi (tutti più o meno dittatoriali) del mondo arabo vedono una fine del conflitto con Israele come altamente desiderabile, a questo non corrisponde affatto un diffuso sentimento popolare dello stesso tenore. La piazza araba era e rimane profondamente ostile a quello che viene chiamato spesso, con disprezzo, "l’Entità Sionista". Un sentimento che nessun regime può apertamente ignorare o sfidare senza pagarne gli enormi costi in termini di tenuta interna e credibilità regionale.

Quali prospettive infine? Una sola cosa è certa: non vi è soluzione militare, o puramente coercitiva, al conflitto. Gli israeliani non possono mettere a tacere le richieste politiche dei palestinesi con repressione e bombardamenti. Tantomeno possono compiere un’operazione di pulizia etnica per liberarsi dei palestinesi. Hamas non può distruggere Israele con missili e massacri. Tantomeno immaginare che gli israeliani, percepiti come occupanti coloniali, se ne vadano. Tuttavia, soluzioni militari e coercitive sono le uniche al momento contemplate: fino a quando un altro tipo di scelte si imporranno, emergendo in un quadro dove lo status quo non è più sostenibile – se mai lo fosse stato.