Lo scoppio della guerra in Ucraina è sin d’ora giustamente considerato uno spartiacque storico. Dal 1945 non si assisteva a un conflitto di tali dimensioni, che coinvolge direttamente o indirettamente le grandi potenze mondiali. Eppure, sebbene la centralità di questo conflitto ne indichi una rilevanza non comune, non così la sua drammaticità, che non deve essere vista come al di fuori del tempo che abitiamo. Anzi: la guerra in Ucraina si colloca in un quadro di crescente instabilità globale, che ha nell’invasione russa solo il suo manifestarsi più evidente e gravido di conseguenze.
Conflitti armati di varia natura sono infatti presenti pressoché in ogni angolo del globo. In primo luogo, possiamo chiederci che tipo di conflitti essi siano. E in secondo luogo, quali fattori possano spiegare il loro emergere nella nostra contemporaneità. Sono due linee di investigazione che hanno un’origine comune, ovvero il mancato concretizzarsi dell’ideale liberale post-guerra fredda.
Dalla Guerra Fredda in avanti
Con la fine della contrapposizione tra i due blocchi, si era postulata la fine di regimi antitetici o comunque realmente alternativi alla democrazia liberale. Sul piano istituzionale, questo avrebbe comportato una convergenza dei sistemi politici a livello globale. Un mondo popolato di democrazie liberali: varie ed aggiornate versioni della pace Kantiana suggerivano un futuro scevro da conflitti armati tra stati. Congiuntamente e organicamente a questo processo, si sarebbe assistito alla diffusione non solo delle istituzioni, ma anche dei valori liberali; e poi di un sistema economico pure fondato sugli stessi principi ed ugualmente universalista, ovvero la globalizzazione.
La tipologia dei conflitti tra stati-nazione
Tristemente, per chi crede in quei valori, questo scenario non risulta essere al momento una descrizione accurata né della realtà in cui viviamo; né, con ogni probabilità, di quella in cui vivremo. Dunque, quale tipo di conflitto ha compromesso la visione liberale descritta? Certo possiamo considerare le guerre tra stati-nazione.
È stato il fenomeno che maggiormente ha segnato la storia del ‘900, e continua a rappresentare la più terribile minaccia alla sicurezza globale.
Ucraina e Russia sono l’esempio più clamoroso.
Ma anche Arabia Saudita e Yemen; Eritrea ed Etiopia; poco tempo fa, Armenia e Azerbaigian, così come anche le guerre americane in Afghanistan e Iraq. E ancora, latenti ma pronti ad esplosioni fragorose, Cina e Taiwan; India e Pakistan; per tacere di un allargamento del conflitto nell’est Europa ai paesi baltici e alla Polonia.
Gli altri scontri
Eppure, la maggior parte dei conflitti attivi nel mondo non sono scontri tra eserciti nazionali. Sono scontri – altrettanto sanguinosi ed efferati – tra forze ufficiali, milizie armate ribelli, contractors privati, financo gruppi criminali con strutture (e capacità) paramilitari. Sono conflitti che non si propongono di ridisegnare, necessariamente, i confini dei territori nei quali operano; ma che con essi convivono, ora sfruttandoli, ora ignorandoli, a seconda delle convenienze. Sono conflitti descritti come insurrezioni, guerre civili, secessionismo armato, terrorismo: tutti termini che cercano di catturarne le fattezze più fluide – potremmo dire caotiche – rispetto ai conflitti convenzionali tra forze armate statuali.
Il Sahel
È a questo tipo di conflitto, per esempio, che facciamo riferimento quando prendiamo l’intera fascia del Sahel, la regione immediatamente a sud del Sahara. Mali, Burkina Faso, Ciad, Nigeria, Sudan: nessuno di questi stati è impegnato in una guerra convenzionale con i suoi vicini. Ma rappresentano, geograficamente, uno stesso spazio entro il quale operano gruppi jihadisti di varia estrazione, affiliati soprattutto alla sigla dello Stato Islamico.
Quali attori non-statali, questi gruppi di miliziani si pongono in primo luogo come forze politiche di contestazione al potere dei vari regimi con cui si scontrano. Ma si comportano poi come gang criminali, con il contrabbando, l’estorsione, i traffici illeciti (specie di esseri umani) quali attività non solo funzionali, ma anzi complementari al dichiarato intento di rovesciamento o resistenza al regime di turno.
America Latina
Un fenomeno simile ai conflitti armati che insanguinano l’America Latina, come in Messico e Colombia. Nel paese andino le FARC, gruppo armato rivoluzionario, da tempo sfruttano il commercio illegale di cocaina per finanziare i propri propositi politici. Un accordo con il governo di Bogotà nel 2016 per mettere fine a decenni di scontri tra FARC e forze regolari è rimasto lettera morta.
In Messico, i cartelli della droga hanno compiuto un percorso inverso ma speculare a quello delle FARC e dei jihadisti saheliani: da gruppo criminale, hanno man mano sviluppato intenti più propriamente politici, incluso il controllo effettivo di intere regioni del territorio nazionale. Alcuni analisti parlano addirittura di un uso non a fini economici della violenza – estrema, efferata – per cui i cartelli (come Sinaloa o Nuova Generazione) sono diventati famigerati; ma un uso fine a stesso, di prevaricazione politica verso lo stato. Le stime sono difficili, ma si ritiene che dal 2006 ad oggi tra militari, polizia, affiliati ai cartelli e, soprattutto, civili, questo conflitto abbia mietuto circa 300mila vittime.
Il Medioriente
Vi è infine un teatro sempre in evidenza: il Medioriente. In questo caso, in paesi come la Siria, la Libia, l’Iraq o il già citato Yemen, il fenomeno più caratteristico sembra quello della guerra per procura (proxy war). Tensioni e rivalità tra potenze regionali o globali vanno a riverberarsi in contesti dove milizie locali e forze governative (se presenti) si scontrano per conto di terzi. Prendiamo la Siria. Il regime di Bashar al-Asad è supportato dall’Iran, specie tramite il suo braccio armato libanese degli Hezbollah, nel conflitto con fazioni ribelli (specie jihadiste) sostenute da vari potentati del golfo: ora i Sauditi, ora gli Emiratini, ora i Qatarioti.
La presenza massiccia dell’Iran in Siria non fa che rendere il paese ancor più minaccioso agli occhi di Israele, che compie regolari incursioni aree nel paese. Turchia, Stati Uniti e Russia sono pure presenti. I primi due contro Asad ma divisi sulla questione curda, le cui milizie sono pure molto attive nel nord del paese; l’ultima da sempre in prima linea a supportare Damasco, unico regime a concedere a Mosca una base militare fuori dagli ex confini sovietici. Le tattiche di bombardamento a tappeto di aree civili cui stiamo assistendo in Ucraina erano già state collaudate ampiamente nel paese levantino, con brutali operazioni contro le aree controllate dalle forze antigovernative.
Egemonia Americana come Pax Americana? Il ritiro USA
Gruppi di miliziani armati che diventano bande criminali; bande criminali che si pongono come gruppi armati con fini politici; paesi che diventano teatri di violente guerre per procura: questo è ciò che avviene.
Quali ipotesi possiamo proporre per spiegare questi tipi di conflitto?
Avanziamo tre spiegazioni: il ruolo dell’America quale attore egemone a livello globale; la crisi delle istituzioni statali; la competizione per risorse economiche.
Sono questi tre fattori che se è possibile distinguere a livello analitico, sul piano concreto rimangono, come è ovvio, intimamente connessi.
La prima fase dell’egemonia americana fu la guerra fredda: un’egemonia incompleta a ben vedere, che si reggeva su un’accettazione dei confini delle reciproche sfere d’influenza con i Sovietici. I conflitti che avvennero fino al 1989 scoppiarono proprio in quei contesti (Corea, Vietnam, Afghanistan) dove tali confini non erano appunto chiari. Poi, negli ultimi trent’anni, l’America ha davvero goduto di un dominio quasi completo. Scevra da vincoli, ha compiuto azioni moralmente sciagurate e strategicamente inutili, come testimoniato dall’avventurismo mediorientale di inizio millennio.
L’una e l’altra fase hanno comportato, infine, un affaticamento evidente nella società statunitense: un affaticamento che condotto alla Casa Bianca, per esempio, tre presidenti (Obama, Trump, Biden) i quali, in modi e stili diversi, proclamavano un ridimensionamento dell’impegno globale dell’America. Dall’interventismo unilateralista post-guerra fredda, all’aspirazione di un isolazionismo che, si badi bene, non è comunque rinuncia al ruolo di attore egemone. Concretamente, questo ha causato una riduzione della presenza americana – politica e militare – in tutta una serie di quadranti ritenuti non strategici: il ritiro da Afghanistan e Iraq va letto in quel senso, così come le esternazioni anti-NATO della presidenza Trump.
Ma se l’egemone si ritira, si crea un vuoto di potere, e quindi una crescita di instabilità dovuta allo spazio disponibile per le ambizioni altrui. Potenze come Russia, Turchia e Iran non a caso hanno riaffermato le proprie aspirazioni fomentando conflitti nei rispettivi quadranti. La Cina, dal canto suo, non ha fatto mistero di volersi riprendere Taiwan.
La crisi dello stato
A questo fattore sovranazionale si aggiunge una dinamica più propriamente domestica, ovvero la crisi istituzionale – di legittimità, di controllo del territorio, di funzionamento dell’apparato statale – dei paesi cui abbiamo fatto riferimento. È una considerazione quasi tautologica: già nel 1919 il sociologo tedesco Max Weber definì lo stato nient’altro che l’istituzione capace di monopolizzare l’uso della violenza in un dato territorio. Ancora Samuel Huntington, il noto politologo americano, nel 1968 distingueva gli stati non secondo il regime (democratico o autoritario), ma secondo la capacità di governare. Ecco dunque che questo monopolio della violenza, questa capacità di governare sono fondamentalmente compromesse in decine di paesi. Dove mancano, il conflitto emerge e prolifera; e attori esterni possono appunto inserirsi con le proprie agende politiche, dandosi battaglia gli uni gli altri.
Il mancato sviluppo
Non è facile – forse nemmeno possibile – fornire un unico fattore che spieghi la crisi di statualità cui assistiamo.
Tuttavia, possiamo considerare la terza ragione rispetto all’emergere di conflitti, ovvero la competizione per le risorse.
L’aumento della popolazione, invero vertiginoso in molti dei paesi qui menzionati, specie nel Sahel, ha contribuito ad una più accesa competizione per le finite risorse naturali a disposizione: idrocarburi certo, ma anche semplicemente territorio coltivabile, prodotti agricoli, risorse idriche. In mancanza di un effettivo, diffuso e sostenibile processo di sviluppo, emergono tensioni economiche e sociali che sfociano poi in rimostranze e conflitti politici, spesso violenti.
Se la globalizzazione accompagnava, sul versante economico, la visione della pace liberale, ecco dunque che anche su questo fronte si constata l’incapacità di far avanzare tale visione. Crisi economica che genera e nutre la crisi politica: quindi la perdita di quel controllo da parte delle istituzioni statali cui Weber e Huntington facevano riferimento. Uno “stato fallito” non è più uno stato: (progressiva) anarchia e conflitto sono una diade difficilmente scindibile. Come osservato da vari analisti, le primavere arabe del 2011 ebbero tra le loro concause un aumento del carovita, specie beni di prima necessità come pane e combustibili. Non a caso, i conflitti Yemen, Siria e Libia sono frutto di quella stagione.
Con una nota di pessimismo notiamo come proprio quei grandi sommovimenti popolari diedero adito a speranze di democratizzazione poi frustrate da tragici sviluppi. Un contrappasso tanto più drammatico se il mondo della pace liberale che sembrava dischiudersi allora ha invece lasciato spazio a un più cupo scenario fatto di instabilità e conflitto.
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