Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, inventore del Salone del gusto, di Terra Madre che ormai tutti riconoscono come l’Onu dei contadini e autore di “Terrafutura” dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale, sarà tra i protagonisti di ColtivaTo, il primo festival internazionale dell’agricoltura in programma a Torino dal 31 marzo al 2 aprile. Con Mauro Calderoni, sindaco di Saluzzo, Petrini parlerà nel Museo del Risorgimento la mattina di sabato 1 aprile (inizio alle 9,30) di “Migranti e lavoro”, tema che collega la questione ecologica a quella sociale.
Petrini, le due parole - migranti e lavoro - rimandano subito a una piaga difficile da cancellare: il caporalato. Perché?
«Perché a monte di tutto ci sta la perversa politica dei prezzi alimentari. Basta entrare in un supermercato per rendersi conto di quanto poco venga pagato il prodotto della terra. Così si favorisce il caporalato in diverse forme: dallo schiavismo puro ad altre dove appare più ammantato, ma nelle quali lo sfruttamento esiste ugualmente. Per fortuna si fanno strada anche buoni esempi. E il Saluzzese, uno dei distretti della frutta in Italia, ne è un esempio. Anche per l’impegno di alcuni imprenditori e amministratori locali si sono trovate alcune soluzioni. Non risolutive, ma capaci di garantire la dignità della persona. D’altronde Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato sì” ha sottolineato che non si dà ecologia senza giustizia, non si cura l’ambiente se le relazioni fra gli essere umani sono viziate da squilibri economici e culturali».
Squilibri che i cambiamenti climatici rischiano di accentuare sin dai prossimi anni, non crede?
«Temo che il climate change ci porterà dritti verso gravi sofferenze. Rischiamo davvero uno sconquasso. Che sarà irreversibile se non interveniamo. Purtroppo però la comunità internazionale è stata distratta negli ultimi anni prima dall’epidemia di Covid e ora dalla guerra in Ucraina, dimenticando l’emergenza clima. Che però progredisce, avanza. Anche in Italia. Basta pensare all’inverno che sta finendo, a lungo senza neve, con temperature miti. Ecco perché rischiamo davvero uno sconquasso».
Da dove si deve partire secondo lei per evitare che questo catastrofico processo diventi irreversibile?
«Dai nostri comportamenti quotidiani. Tutti noi possiamo dare un contributo concreto per attenuare quantomeno questo processo perché siamo una parte del meccanismo. Due numeri spiegano meglio di tante parole. Il primo è 37%. E’ la quantità di anidride carbonica prodotta nell’ambiente dall’alimentazione. Un terzo delle emissioni globali sono legate al cibo. Il secondo numero è 32%. Indica la quantità di cibo che viene sprecata. Tradotta in numeri equivale a 1,5 miliardi di tonnellate di alimenti che buttiamo ogni anno, mentre 800 milioni di poveri soffrono la fame».
Da dove si potrebbe iniziare?
«Innanzitutto dall’evitare gli sprechi. A casa come al ristorante. Poi riducendo il consumo di carne. Oggi è davvero sproporzionato. Nell’Italia degli anni ’50 e ’60 il consumo pro-capite era di 40 Kg l’anno. Oggi è più che raddoppiato, raggiungendo quota 90 Kg pro capite. Eppure allora non si soffriva la fame. Semplicemente ci si alimentava meglio. Tutta questa voracità spinge agli allevamenti intensivi che per consumi d’acqua e emissioni sono veri campioni d’inquinamento. E poi togliamo la plastica dalla nostra tavola. Ormai c’è una produzione massiva di confezioni di plastica monouso per prodotti alimentari. Con questo risultato: che milioni di tonnellate di plastica finiscono ogni anno nei mari del mondo, si degradano in micro e nano plastiche, che vengono ingerite dai pesci e così entrano a tutti gli effetti nella catena alimentare».
È ottimista sul fatto che questo cambio di abitudini possa riuscire?
«Ripeto: o ci sarà una svolta comportamentale, un cambio di paradigma o la prospettiva sarà il baratro. Non per la mia generazione ma per quelle future sì. E ancora una volta, è scontato, a pagare saranno i più poveri, ma nessuno sarà immune da questa catastrofe. Ecco perché mi ritrovo nel passaggio di Francesco in cui nella sua enciclica ricorda che il grido di dolore della terra ferita è anche il grido dell’umanità. Soprattutto dei più poveri. Dobbiamo cambiare comportamenti, essere più responsabili se vogliamo stemperare l’impatto, la violenza del cambiamento climatico e salvare la terra».
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