Nel 2021, in Italia, sono a rischio 2,1 milioni di posti. Le politiche normali per l'occupazione non bastano più. La soluzione è nei «cantieri di lavoro pubblico temporaneo». Vi spieghiamo perché e che cosa sono.
Abbiamo appena archiviato un vero annus horribilis. L’Italia dell’inizio del 2020 era già in stagnazione, a causa del neoprotezionismo internazionale (che aveva fermato le esportazioni) e del ristagno dell’economia tedesca. A marzo, la crisi sanitaria ha costretto l’economia a una chiusura di circa la metà delle attività economiche; in autunno, la seconda ondata pandemica è stata contenuta da un lockdown (dei semafori) meno rigido.
I lockdown, morbidi o rigidi, intaccano sia la domanda che l’offerta, non solo direttamente ma anche indirettamente.
I settori colpiti non sono solo quelli direttamente interessati dalle limitazioni, ma tutti quelli collegati e, in un certo senso, pressoché tutti i settori di attività privata, per via della riduzione generalizzata di spese e di consumi.
La rinuncia al futuro
Tuttavia, per il momento abbiamo rinunciato a regolare i conti con le conseguenze sull’occupazione. Prendendo le misure dell’occupazione complessiva, tra ottobre 2020 e ottobre 2019 gli occupati sarebbero scesi di 492 mila unità (da 23,394 milioni a 22,902 milioni). Un piccolo taglio, se commisurato a una perdita di Pil che dovrebbe avvicinarsi al 10%. Analizzando il grafico sotto, tuttavia, si vede che il calo si è concentrato in due categorie di occupati: gli indipendenti che hanno perso 193 mila lavoratori (intorno al 4 per cento del valore iniziale) e i lavoratori a tempo determinato, scesi di 315 mila (-10%), in quanto non tutelati dal blocco legale dei licenziamenti, che scadrà a marzo del 2021. È così che si realizza il fatto che il blocco dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato non sia stato, formalmente, toccato dalla crisi.
Non è stato così nella maggior parte degli altri Paesi. La pandemia ha generato ovunque cali occupazionali ben più gravi del -2% nominale dell’Italia, per quanto sempre attutiti dagli schemi pubblici di contrasto della disoccupazione. E qui sta il punto. Ad essere privati del tempo trascorso al lavoro sono stati anche tutti i lavoratori che le imprese hanno collocato in cassa integrazione. E sono ben più dei relativamente pochi che hanno perso il lavoro davvero.
Da gennaio a novembre del 2020 la Cig ha autorizzato 2,77 miliardi di ore, il mille per cento in più dello stesso periodo nel 2019. I lavoratori interessati sono stati svariati milioni, circa 7 milioni, ma giova riflettere su un altro valore, ossia sull’occupazione implicitamente inclusa nei 2,77 miliardi di ore autorizzate di cig. Si tratta di circa 1,6 milioni di occupati equivalenti a tempo pieno, che sommati ai 492 mila già perduti secondo la contabilità dell’Istat, portano il conto delle unità di lavoro cancellate dal covid-19 nel 2020 a 2,1 milioni: più o meno il 9% dell’occupazione prima del Covid. Una vera decimazione degli occupati, in senso proprio e non figurato.
A questo punto conosciamo il reale impatto del Covid sull’occupazione nel 2020: -9 per cento, -2,1 milioni di ULA perdute.
Tuttavia, poiché la maggior parte degli interessati hanno fruito o stanno fruendo dell’indennità di cassa integrazione o dei ristori previsti per i lavoratori autonomi e indipendenti, non si è ancora rivelata la gravità del problema. Essa emergerà quando cesserà la sospensione dei licenziamenti, ossia il 30 marzo del 2021. Mancano 90 giorni a quella scadenza.
La prima domanda da porsi è se la ripresa possa rioccupare tutti coloro che nel 2020 avrebbero perduto l’occupazione. Ci permettiamo di dubitarne, e anche un bel po’.
Per tre ragioni: perché, in primo luogo, l’occupazione del 2021 sarà legata alla ripresa del 2021, che sarà inferiore al calo di attività del 2020. In secondo luogo, a fine del 2020 il livello dell’attività è inferiore a quello del 2020, ma nonostante questo l’utilizzo della capacità produttiva è intorno al 70%. Questo significa che il sistema economico ha fatto emergere efficienza durante la crisi, e possiamo prevedere che cercherà di conservarla nel 2021. Infine, in terzo luogo, il Covid è stato un game changer nell’organizzazione dei servizi, sia espliciti che impliciti, avendo fatto rivalutare l’efficacia del lavoro a distanza, il che rende plausibile che i servizi tendano ad accelerare la modernizzazione organizzativa e il collegato risparmio di lavoro, dopo il primo esperimento involontario ma positivo.
Immaginiamo pure che una parte dei 2,1 milioni, specie quelli nei settori più sacrificati durante la crisi sanitaria e i lockdown (turismo, trasporti, cultura e sport) tornino nelle loro sedi di lavoro. Però, difficilmente succederà a tutti. Che fare? L’ordinamento del sistema di previdenza italiano prevede in questi casi la Naspi (ossia l’indennità destinata ai dipendenti che perdono il lavoro). Si sta lavorando ad altri istituti, di dubbia opportunità, come l’indennità di continuità reddituale erogabile alle “partite iva” Ma né la Naspi né altre indennità mi paiono convincenti.
La cicatrice impressa dal Covid sul lavoro è così larga e profonda che i destinatari di queste misure potrebbero facilmente superare il milione di persone.
Se veramente fino a 2,1 milioni di persone rischiassero di uscire definitivamente dal lavoro, non c’è lenimento reddituale che possa essere efficace.
Occorre piuttosto pensare alla gigantesca sottrazione di risorse dalle forze lavoro se i lavoratori espulsi dal sistema produttivo in mutamento non riuscissero più a cogliere opportunità di impiego. Inoltre, vi sarebbe comunque un costo da affrontare da parte dello Stato. Un milione di lavoratori in Naspi potrebbero costare un indennizzo annuale di circa 15 miliardi di euro.
Se i numeri saranno simili a quelli che abbiamo calcolato, il tempo necessario al loro riassorbimento potrebbe trascorrere senza esito, perché consumerebbe il loro capitale umano e la loro esperienza. Queste dovrebbero essere invece mantenute, magari utilizzate e, se possibile, accresciute.
Come fare? Il progetto da realizzare si potrebbe compiere in tre passi.
Con il primo, le amministrazioni pubbliche locali, regionali e statali nonché le imprese pubbliche dovrebbero istituire cantieri temporanei di lavoro pubblico integrati nei loro piani e aderenti ai loro bisogni, magari per recuperare attività in arretrato o avviare progetti nuovi. Nel secondo passo, i lavoratori disoccupati dovrebbero essere esaminati al fine di valutare il bilancio delle loro competenze ed avviati a corsi di formazione e di istruzione, anche universitaria, per integrare le competenze possedute; con il terzo passo, parzialmente sovrapponibile al secondo, i lavoratori dovrebbero essere assegnati ai cantieri temporanei di lavoro pubblico, a seconda delle loro capacità.
Una politica di questo genere avrebbe il vantaggio di costare solo marginalmente in più del semplice sostegno del reddito dei disoccupati. Manterrebbe e accrescerebbe il valore delle competenze delle persone, migliorandone l’occupabilità nel settore privato, quando l’economia si riprendesse. In terzo luogo, in questo modo si conseguirebbe il vantaggio di trarre una concreta utilità pubblica dall’operato di queste persone. Infine, si ridurrebbero al minimo le non piccole probabilità di emarginazione sociale di coloro che perdono il lavoro nel mezzo di una crisi di massa.
Questa proposta è più inclusiva e ampia dell’assegno di rioccupazione, già introdotto dal Jobs Act e spendibile dai disoccupati presso le agenzie formative e che la legge di Bilancio 2021 potrebbe potenziare. Di fronte a una crisi di dimensione straordinaria anche le politiche sono chiamate a fare un salto di qualità straordinario. Il 2021 è il momento giusto per pensare in grande e potenziare le politiche attive, convertendo il welfare in workfare, destinandolo al massimo numero di persone possibile.
È probabile che il coronavirus sarà sanitariamente battuto nel 2021, ma non sarà una vera vittoria fino a che tutti i colpiti dalla disoccupazione da covid non saranno riavviati a un vero impiego.
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