Ha destato scalpore la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Dobbs vs Jackson Women’s Health Organisation con cui è stato ribaltato il precedente Roe vs Wade che aveva, sino dal 1973, sancito la legittimità dell’aborto a livello federale, sottraendo quindi tale ambito dalle scelte dei singoli stati.
I giudici ultraconservatori di Trump
Scalpore, ma non sorpresa: a maggio era già circolata la minuta dell’opinion che sarebbe stata seguita dalla maggioranza dei giudici della Corte Suprema, grazie anche al decisivo voto dei giudici ultraconservatori nominati durante la Presidenza Trump. Il salto indietro che ne consegue condurrà di nuovo al turismo sanitario all’interno degli Stati Uniti da parte di donne che risiedono in stati pronti ad emanare leggi antiabortiste, verso stati più liberali che invece consentiranno ancora tale pratica. Per chi potrà permetterselo, ovviamente. Tutto questo finché a livello federale non vi sarà una maggioranza pronta e determinata ad approvare una legge federale. Non è da escludere che il dibattito che ne seguirà sarà sfruttato per le prossime elezioni di midterm che si terranno a novembre di quest’anno.
Opinioni esplicitamente reazionarie
Ma la decisione della Corte Suprema rischia di dimostrarsi ancor più significativa, e più grave, perché rischia di segnare una sua evoluzione. Non è mancato, tra i commentatori, chi ha sostenuto che nel ribaltare Roe vs Wade, i giudici americani si siano fatti interpreti del mutato orientamento dell’opinione pubblica americana, da anni spalleggiata ed alimentata dalla diffusione di posizioni politiche e culturali non conservatrici, bensì esplicitamente reazionarie. Il che risulterebbe comprovato dal tripudio con cui la grande parte dei cattolici americani e degli evangelici hanno salutato l’ultimissima decisione della Corte Suprema.
Evoluzione o involuzione degli Usa?
Più che di evoluzione, però, sarebbe il caso di parlare di involuzione del massimo organo giudiziario americano. Se solo, infatti, si pensasse a come è nato il giudizio di costituzionalità negli Stati Uniti – e da lì poi mutuato in diverse forme in tutto il mondo – e di come si sia storicamente atteggiata la Corte Suprema, si dovrebbe esser giustamente preoccupati dei più recenti segnali.
Il primo caso al mondo a sancire il giudizio di legittimità costituzionale fu, infatti, il precedente Marbury vs Madison, nel 1803, deciso dalla Corte presieduta da John Marshall. Marshall era stato nominato dal presidente americano Adams, ed era stato prima suo sottosegretario di Stato oltre ad esser un convinto sostenitore del Partito Federalista, lo stesso partito di Adams. Fatto si è che Adams perse le elezioni presidenziali contro Thomas Jefferson e prima di passare le consegne si premurò di nominare una serie di giudici territoriali a lui fedeli. Tra questi lo stesso Marbury, la cui procedura di nomina venne però fermata da Madison, divenuto segretario di Stato di Jefferson e come quest’ultimo determinato ad arrestare lo spoils system messo in piedi da Adams.
Affiliazione politica e Corte Suprema
Marbury ricorse alla Corte Suprema, confidando anche nella solidarietà del suo presidente Marshall, compagno di partito. Nel dar torto a Marbury, però, Marshall non solo sancì il primo esempio di giudizio di costituzionalità, ma affermò un tratto fondativo della nomina a membro della Corte Suprema. Infatti, dimostrò che l’affiliazione politica non avrebbe condizionato le decisioni della Corte, che avrebbero dovuto basarsi solo sul rispetto dei principi costituzionali a tutela, tra l’altro, di un principio essenziale nelle democrazie liberali. Il principio che vuole evitare che qualsivoglia maggioranza politica, che qualsivoglia orientamento valoriale contingentemente prevalente possa limitare le libertà del singolo sancite dalla Costituzione americana e dal Bill of Rights (rappresentato dagli emendamenti alla Costituzione). Marshall fu il primo, e con tale esempio condizionò l’atteggiamento dei membri successivi della Corte, sino ad oggi.
La lotta alla segregazione razziale
Le grandi decisioni del secondo dopoguerra in materia di lotta alla segregazione razziale, con il celebre Brown vs Board of Education, di garantismo, con il caso Miranda vs Arizona (quello dal quale deriva l’elenco dei diritti del soggetto fermato dalla polizia, reso noto dalla cinematografia americana), furono assunte durante la presidenza di Earl Warren. Warren venne eletto da Eisenhower, era membro del Partito Repubblicano e ritenuto un conservatore. Ebbene, la sua presidenza si caratterizzò per una interpretazione e uno sviluppo del diritto americano in chiave fortemente liberale.
La dialettica tra principio liberale e principio democratico
Questo perché la vicenda costituzionale americana, che è la vicenda del costituzionalismo tout court, ha sempre avuto chiara l’intima dialettica tra principio liberale e principio democratico. Dove il primo costituisce limite del secondo e presidio per poter perseguire, da parte ci ciascun individuo, quel pursuit of happiness che la Dichiarazione di Indipendenza del 1776 (scritta da Thomas Jefferson) aveva elevato a terzo diritto inalienabile oltre alla vita ed alla libertà.
Quel presidio impone che negli affari civili nessun legislatore faccia propria la visione del mondo di una parte, sebbene maggioritaria, dei propri cittadini. Che non s’imponga al singolo di vivere secondo le regole o i valori morali di altri. Che sia garantita la massima pluralità di scelte di vita, e del pari la massima libertà di manifestazione delle proprie credenze, anche religiose, a condizioni che nessuna credenza, nemmeno religiosa, possa diventare regola civile per tutti.
E nel nostro Paese?
In Italia, si è detto appena usciva la notizia dell’overrulling di Roe vs Wade, che nessuno ha in mente di rimetter mano alla legislazione sull’aborto. E sta bene.
Ma non siamo immuni, purtroppo, per storia e per tradizione, a molte troppe forme di ingerenza sui valori individuali.
Poco più di una settimana fa, infatti, non è mancato il vescovo Zenti che in vista delle elezioni per il Sindaco di Verona si è preso la briga e la premura di ammonire i fedeli a non dar il voto a chi favorisca l’ideologia gender, o i temi dell’aborto e dell’eutanasia.
Si è obiettato: ma in realtà egli parla alle coscienze dei suoi fedeli e questo non violerebbe il principio di laicità, non rappresenterebbe una ingerenza.
Non è affatto così.
Purtroppo, il concetto di laicità, che non è una ideologia bensì un metodo, pare molto difficile da cogliere nelle sue applicazioni concrete.
A poco importa che la sua affermazione, tra l’altro, la si debba ad un Papa, Gelasio I, che per primo enunciò la dottrina delle due spade, che non potevano esser rette da un’unica mano. Dove le spade rappresentavano il potere spirituale e quello temporale.
La laicità non è principio o metodo invocato solo da miscredenti, agnostici, atei. Niente affatto.
Un grande storico del diritto, fervente cattolico, profondamente laico, come Arturo Carlo Jemolo (“Coscienza laica”, in Il Mondo, 8, n. 4, 24 gennaio 1956, pag. 9) scriveva:
«La vera coscienza laica si ha nel credente solo allorché egli accetta lo stato di fatto della diversità di concezioni che si riscontrano in un dato momento, e che ritiene lo Stato debba ispirare le sue leggi e le sue opere a quelle visuali di bene che sono comuni a tutte le concezioni […] e che pertanto lo Stato debba ammettere nella sua legislazione, consentire attraverso la sua legislazione, quello che per lui credente è peccato, e la propaganda di che per lui è tale: lasciando alla libera gara tra uomini religiosi ed uomini non tali, il compito di fugare il peccato, di fare sì che il peccato, pur consentito dalla norma di legge, non abbia mai a venire commesso».
Il perché delle ingerenze dei vescovi
Se così deve essere, si comprende perché quel vescovo, e come lui tanti altri prima, si ingerisca volontariamente ed indebitamente nella vita pubblica italiana nel momento in cui non si rivolge alle coscienze dei suoi fedeli esortandoli a non praticare (giustamente dal suo e loro punto di vista) quel che viene ritenuto esser un peccato, ma pretenda di intervenire in questa o quella elezione per cercare di far prevalere chi voglia rendere prova di zelo vietando agli altri di compiere quel che per parte cattolica viene ritenuto esser inaccettabile in quanto peccato.
La laicità secondo Jemolo
«L’essere laico – continuava Jemolo - significa semplicemente questo: accettare il presupposto di uno Stato che debba accogliere credenti e non credenti e riconoscere a tutti eguali diritti ed eguale dignità».
E ancora: «La legge della confessione religiosa ben può essere per questi “laici” quella che più gli interessa, che più preme su loro. Possono, in un Paese che ammetta il divorzio e il matrimonio civile, non considerare neppure la possibilità che il divorzio si applichi nella loro famiglia, non pensare neppure a matrimoni non benedetti dalla Chiesa […] possono osservare, nelle piccole e nelle grandi cose, tutti i Precetti della Chiesa. Ma hanno accettato una premessa: che quei precetti non debbano avere altra sanzione all’infuori di quella ecclesiastica, le censure, le scomuniche; siano obbligatori soltanto per chi appartenga al corpo dei fedeli, sicché il vedersene escluso rappresenti per lui una mutilazione; che mai invece si possa pretendere dallo Stato un qualsiasi appoggio a quelle prescrizioni; che la legge dello Stato debba essere tale da potersi imporre a credenti e non credenti, senza offendere i sentimenti né degli uni né degli altri: liberale, in quanto non possa mai imporre ad alcuno di operare od agire contro le sue convinzioni, sotto la pressione, anche indiretta, della perdita di una utilità».
La libertà di coscienza
Il che dovrebbe chiarire, una volta per tutte, non solo il senso profondo di quel metodo che si chiama laico, ma anche che chi assume il ministero di legislatore, di giudice, non deve pensare ad assicurare la propria libertà di coscienza quando decide o quando legifera, bensì assicurare la libertà di tutti coloro che sono sottoposti alle sue leggi o alle sue decisioni.
Questa è la laicità compatibile con una democrazia liberale. E questa è l’unica democrazia liberale compatibile con il significato profondo della libertà.
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