Ogni anno una riduzione dell’8% del Pil. È questo il drammatico conto della crisi ambientale e dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo se non troviamo subito una via di uscita.

L’ultimo report del think tank britannico Institute for Public Policy Research, This is a crisis, facing up the age of environmental breakdown, illustra come i cambiamenti climatici possano avere un impatto rilevante anche sul sistema sociale ed economico, a livello sia locale sia globale. Il report mostra come siccità e alluvioni, possano mettere a rischio la stabilità dei sistemi economici, sociali e politici anche in maniera più decisa della crisi finanziaria del 2008. In campo agricolo, ad esempio, la distruzione di coltivazioni e nutrimento per gli allevamenti; le Nazioni Unite hanno stimato che già oggi il deterioramento del suolo ha influito sulla vita di 3,2 miliardi di persone. Un altro esempio è il settore turistico influenzato sia dal surriscaldamento globale sia dall’aumento medio del livello del mare. Per centrare i target sulle emissioni (-55% al 2030 rispetto ai livelli del 1990 e neutralità carbonica al 2050) l’Italia ha bisogno di un netto cambio di passo.

Nel 2018, il premio Nobel per l’economia è stato assegnato a William Nordhaus, per i suoi studi sul rapporto tra crescita economica e cambiamenti climatici. Basta questo elemento a dimostrare quanto le tematiche ambientali siano diventate variabili fondamentali anche per gli economisti. Ma qual è il quadro della situazione?

 

Il vantaggio “sociale” dell’economia green

Il Report Italy Climate Report 2020 presentato da Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, evidenzia come la necessità di riallinearsi con gli obiettivi zero carbon non sia soltanto importante per l’ambiente, ma anche e soprattutto per l’economia. «Se non si invertiranno le attuali tendenze, nella seconda metà del secolo - si legge nel report - il riscaldamento globale potrebbe costare all’Italia ogni anno l’8% del Pil». Senza dimenticare che il cambiamento climatico determina anche l’accentuazione di problematiche in fatto di giustizia sociale e internazionale impattando quindi sulle disuguaglianze di classe, etnia e genere. Infatti, è stato calcolato che la metà più povera della popolazione mondiale contribuisce solo al 10% delle emissioni, mentre il 10% più ricco è responsabile del 50% delle emissioni. Una differenza che si ripropone anche all’interno dei Paesi più ricchi dove il 10% della popolazione più ricca contribuisce molto più del resto della popolazione alle emissioni di gas serra.

Le problematiche ambientali, quindi, finiscono per scavare ancora di più i divari esistenti e creandone anche nuovi. A questo riguardo va ricordato che i Paesi più esposti ai fenomeni atmosferici estremi sono anche quelli meno coperti dai servizi assicurativi essendo che il 99% dei danni economici causati dai disastri naturali nei Paesi più vulnerabili non ha copertura assicurativa. «La stima a cui ad oggi giungono molti ricercatori – come si legge in un recente rapporto Pictet che sta mettendo in campo una serie di strumenti finanziari legati alla sostenibilità - è di un costo sociale di 418 dollari per tonnellata di CO2 emessa, in un intervallo di valori che può variare da 177 dollari a 805 dollari. E questo a seconda del Paese in cui si vive e della classe sociale di appartenza».

Gli effetti di un riscaldamento non controllato

Se il fallimento delle politiche ambientali permettesse al riscaldamento globale di crescere indisturbato, la produzione economica mondiale subirebbe un calo del 23% rispetto all’altra più ottimistica previsione. Lo hanno sostenuto tre economisti americani dell’Università di Berkeley, Solomon Hsiang, Marshall Burke e Edward Miguel, che nel 2015 avevano pubblicato un report (Global non-linear effect of temperature on economic production) consegnato alla rivista Nature le loro stime sugli effetti della temperatura sulle attività economiche. E già allora emerse come l’impatto non riguardi solo i Paesi poveri mettendo a serio rischio anche le società più ricche. Ma sotto questo profilo anche la storia insegna.

Così gli autori dell’articolo Global non-linear effect of temperature on economic production, ricavando le informazioni dagli archivi della Banca Mondiale, hanno ripercorso il rapporto tra economia e temperatura in 166 Paesi del mondo tra 1960 al 2010. Lo studio si è concentrato sull’unico parametro della temperatura  e ne è emerso che il riscaldamento del pianeta aumenterà le disuguaglianze tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri. Perché mentre i gradi in più possono rivelarsi vantaggiosi per i Paesi più freddi del Nord, che sono quelli con un’economia centrata più sui servizi che sull’agricoltura, l’aumento di temperatura metterà in difficoltà le regioni più calde che sono anche le più povere. E tra queste si avranno gli effetti maggiori così che nel  40% dei Paesi a basso reddito i guadagni medi potrebbero ridursi del 75%. Tutto questo, però, fino a un certo punto, cioè fino a un certo grado, fino alla temperatura ottimale, spiegano i ricercatori, alla quale gli esseri umani, proprio come gli animali e le piante, sono particolarmente produttivi.

La soglia magica

E il numero magico, la temperatura perfetta, è quella di 13° C di temperatura media. È la soglia magica, quella registrata attualmente nei Paesi economicamente più avanzati, alla quale si ottiene il massimo del rendimento. Ma se nei prossimi 100 anni il termometro smettesse di essere così favorevole e cominciasse a segnare qualche grado in più sarebbe finita, o diminuirebbe la “festa” in Paesi come gli Stati Uniti e la Cina, che ora si trovano nella fascia climaticamente fortunata. E se inizierà ad andare meno bene per Stati Uniti e Cina, andrà decisamente peggio per le popolazioni che vivono in luoghi più caldi, come il Brasile o gli Stati dell’Africa, dove la soglia termica indicata per ottenere i massimi ricavi è già adesso superata. Facendo calcoli sui modelli statistici del passato si scopre che il 20% dei Paesi ricchi subirà considerevoli perdite economiche se i cambiamenti climatici non verranno rallentati e il loro Prodotto interno lordo crollerà del 23%. Senza dire che all’aumentare delle temperature, l’aggressività aumenta e diventa più facile che si scatenino conflitti, dalle guerre civili agli omicidi, perché il legame tra clima e violenza vale ovunque e i in tutti i tempi.

L’impatto della siccità

Da parte sua, il Rapporto intitolato Shock Waves: Managing the Impacts of Climate Change on Poverty del 12 novembre 2020 redatto dalla Banca Mondiale  ha constatato che l’85% della popolazione dei 52 Paesi dell’Africa e dell’Asia presi in esame vive in regioni particolarmente esposte alla siccità rispetto al resto del mondo. Ne emerge che nel 2030 il 56% della popolazione mondiale verrà messo in difficoltà dall’aumento dei costi degli alimenti, nel 2080 gli svantaggiati saranno il 73%. In Africa i prezzi cresceranno del 12% nel 2030 e del 70% entro il 2080. Un duro colpo per tutte quelle nazioni in cui la spesa per i generi alimentari corrisponde al 60% dei costi affrontati da una famiglia. Un altro capitolo del Rapporto della Banca Mondiale conteggia i danni all’agricoltura: il 5% di perdite sul raccolto nel 2030 diventeranno del 30% nel 2080.

Il problema maggiore è che la temperatura combinata di terra e oceano è aumentata di un tasso medio di 0,07°C per decennio dal 1880. Tuttavia, dal 1981 questo tasso è più che raddoppiato (0,18°C), secondo i dati dello US National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) 2019 Global Climate Summary. Questo calore aggiuntivo è responsabile delle temperature estreme a livello regionale e stagionale, dello scioglimento delle calotte polari e delle piogge più abbondanti. Gli uragani Harvey, Irma, Katrina e Sandy hanno già dimostrato quanto il cambiamento climatico può essere dannoso oggi, e rappresentano alcuni degli esempi più noti delle conseguenze di breve termine del riscaldamento globale. A livello globale, il numero medio di cicloni tropicali in un decennio è passato da 14 a 23 a partire dagli anni ’80, mentre il numero di alluvioni è quasi raddoppiato. Gli eventi metereologici diventeranno sempre più inclementi.

Gli effetti economici dei disastri climatici

È chiaro che i disastri climatici sono distruttivi e hanno spesso effetti devastanti per le persone e l’ambiente ma valutare il loro impatto economico è complesso. Ci si limiterà a quantificare le perdite economiche dirette (come i danni a edifici e infrastrutture e perdite legate all’interruzione dell’attività economica) indotte da alluvioni e cicloni senza prendere in considerazione i danni indiretti legati a mortalità, carestie, mancanza di acqua, migrazioni e perdite dovute all’interruzione delle catene di approvvigionamento.

Sulla base dei dati di Munich Re, si evidenzia che le perdite economiche medie sono aumentate negli ultimi decenni in gran parte dei Paesi considerati. Ad esempio, il danno medio causato dalle alluvioni negli Usa è stato di circa 4 miliardi di dollari negli anni ’90, in crescita rispetto ai 360 milioni di dollari degli anni ’80, mentre nel primo decennio degli anni 2000 le perdite sono state più di 1,2 miliardi. La Cina mette a bilancio dalle alluvioni danni di 3,6 miliardi nel decennio 2000-2010. Gli Usa sono invece i più colpiti dai cicloni tropicali, con un danno stimato di 24 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2010, in aumento rispetto ai 2 miliardi degli anni ’80.