Considero molto importanti le ricorrenze: più che per quello che celebrano, per l’occasione che ci offrono di fare i conti con la storia e, in fondo, con noi stessi: quelli che eravamo, che vorremmo e dovremmo essere, e quelli che siamo. Le ricorrenze suggeriscono sempre potenti lezioni di modestia, perché in esse è il mondo a prendere la parola, e noi potremo onorarle, ed esprimere la nostra gratitudine, solo rendendo manifesta la nostra posizione nei confronti del mondo stesso. Un mondo e una vita pubblica a cui siamo debitori e debitrici dello spazio in cui parliamo, e in cui veniamo ascoltati.
«Pane e pace»
La prima volta che la data dell’8 marzo apparve nel contesto della Giornata internazionale della Donna fu nel 1914. Si trattò di una serie di incontri che le donne fecero per protestare contro la violenza della guerra in corso e per solidarizzare con le cittadine russe che l’anno precedente, nel 1913, avevano celebrato la loro prima Giornata internazionale della Donna nell’ultima domenica di febbraio, contestualmente ai movimenti pacifisti che auspicavano la fine delle violenze della Prima guerra mondiale.
Così, nel 1917, davanti agli oltre due milioni di soldati morti nel conflitto, le donne russe scelsero l’ultima domenica di febbraio per proclamare uno sciopero al grido di «pane e pace». Una scelta criticata dai politici e dalla classe dirigente di allora, ma che fu comunque portata avanti: pochi giorni dopo abdicò lo Zar e il governo provvisorio concesse il diritto di voto alle donne. Era il 23 febbraio secondo il calendario utilizzato a quel tempo in Russia, l’8 marzo secondo quello gregoriano di tutti gli altri Paesi.
Questa è solo una delle numerose versioni dell’origine dell’8 marzo: molte altre ne esistono, come forse è giusto che sia, per ogni grande rivoluzione. E tuttavia, non è sulla fedeltà alla storia che queste brevi riflessioni vogliono insistere. Vorrei onorare l’8 marzo soffermandomi, in queste poche righe, su due importanti parole, una tipicamente femminile, e una solitamente declinata al maschile.
Rinuncia
«Mi dimetto, perché da un ruolo così privilegiato derivano delle responsabilità. La responsabilità di sapere quando sei la persona giusta per fare da guida, e quando non lo sei. So cosa richiede questo lavoro e so che non ho più abbastanza energie per rendergli giustizia. È semplice… So che ci saranno grandi discussioni dopo questo annuncio sulle cosiddette ‘reali ragioni’. Posso dirvi che è semplicemente quello che sto condividendo con voi oggi. L’unico punto di vista interessante che troverete è che dopo aver affrontato grandi sfide per sei anni, sono umana. I politici sono umani».
Con queste parole, il 19 gennaio 2023, Jacinda Arden, prima ministra della Nuova Zelanda, annunciò le sue dimissioni, con nove mesi di anticipo rispetto alla fine del mandato, e di una nuova eventuale ricandidatura. Quarantadue anni, a trentasette diventò primo ministro, nell’agosto 2017: la persona più giovane nella storia del paese a ricoprire quella carica. Un anno dopo fu la seconda della storia a diventare madre mentre era in carica.
Nel 2019 si trovò a fare i conti con il dolore, la paura e il trauma della nazione dopo che due moschee di Christchurch, la terza città del paese, furono oggetto dell’attentato terroristico più grave nella storia della Nuova Zelanda: 51 persone morirono. Ardern visitò la comunità ferita, abbracciò i sopravvissuti indossando un hijab e non alimentò mai alcun discorso d’odio. Pochi mesi dopo la Nuova Zelanda fu colpita da un’altra tragedia: l’eruzione del vulcano White Island, che costò la vita a 21 persone.
Durante il suo periodo da premier, Arden ha condotto la Nuova Zelanda attraverso la pandemia, ottenendo il riconoscimento internazionale del suo successo nella gestione della crisi grazie ad un approccio chiaro, tranquillizzante e umano. «Spero - ha poi detto, rispondendo a una domanda - di lasciare ai neozelandesi la convinzione che si possa essere gentili ma forti, empatici ma decisi, ottimisti ma concentrati. E che si possa essere un proprio tipo di leader, uno che sa quando è il momento di andare».
Jacinda Arden ha fatto un passo indietro: un passo indietro dovuto non a scandali o a crisi politiche ma ad una decisione personale, maturata sicuramente con difficoltà ma grazie alla capacità di riconoscere i propri limiti, e al coraggio di ammettere la fatica.
Fare un passo indietro significa essere deboli? Me lo sono chiesto a lungo, ascoltando questa storia. Prima di dare la mia risposta ne vorrei considerare anche un’altra, di tutt’altro tipo.
Tamara Lunger è una sciatrice, alpinista ed esploratrice italiana, due volte campionessa italiana di scialpinismo, nata a Bolzano nel 1986. Nel 2009 Tamara conquista la vetta della sua prima spedizione importante, a 6189 metri: Island Peak. Nel 2010 conquista la prima vetta himalayana: il Lhotse, a 8.516 metri. È la donna più giovane ad aver scalato questa montagna. Nel 2011 Tamara conquista il Khan Tengri, la montagna più alta del Kazakistan, a 7.010 metri. I successi proseguono nel 2012 con il Muztagh Ata (7.547 metri), e nel 2013 con Peak Lenin, la prima spedizione di alpinisti occidentali in Asia Centrale. Nel 2014 Tamara scala il K2 (8.611 metri) senza ossigeno e senza assistenza, e raggiunge la vetta: la seconda donna della storia a riuscire in questa impresa.
Il 26 febbraio 2016 Tamara ha 29 anni, e si trova a 70 metri dalla cima del Nanga Parbat, la nona montagna più alta della terra (8126 metri), che tutti chiamano “the killer mountain”.
Si ferma, si gira, e torna indietro: rientra al campo base numero 4. Rinuncia ad essere la prima donna al mondo a raggiungere un ottomila nella stagione invernale, quando alla cima mancano appena 70 metri, quando basta uno sforzo di mezz’ora, dopo aver trascorso 80 giorni tra i vari campi del Nanga Parbat, in attesa della finestra di bel tempo, affrontando venti gelidi e temperature che hanno toccato i -50°.
Settanta metri in una qualsiasi città non sono niente, in montagna possono essere tutto.
In una sola notte il gruppo aveva raggiunto i 6300 metri, e le prime quattro ore di scalata erano state tutte all’ombra: c’erano -34° con un vento che soffiava a 45 km all’ora, il che significa che la temperatura percepita era -58°. E quella mattina lei stava male, aveva lo stomaco sottosopra, era disidratata e stanca: aveva sofferto molto il freddo e la mancanza di acclimatazione, e il suo malessere era aggravato dal gelo e dalla stanchezza. Certo, la vetta l’avrebbe raggiunta, mancava davvero poco, così poco che ha salutato con la mano il pachistano Ali Sadpara, il primo a conquistare la vetta:
«Ho capito che quel giorno, nelle mie condizioni, poteva costarmi la vita. Temevo mi attendessero in vetta, ero molto lenta. Avrei rallentato troppo la discesa di tutti, sarebbe stato un suicidio. Con il buio avremmo rischiato di perdere la via, di non trovare le tende. Ho sentito una voce interiore che mi diceva: se vai in cima non torni a casa. Così ho deciso». E ha sussurrato: «Simone, se arrivo in cima dovrete aiutarmi a scendere». Poi se ne è andata, quando ormai sembrava fatta. Fare cordata significa anche questo: con il suo gesto, la sua rinuncia, ha permesso ai suoi compagni di spedizione di arrivare al successo, senza mettere in pericolo la sua vita e la loro vita.
La sua reazione? Eccola:
«Quel giorno ero troppo sicura di me. Non era il giorno esatto. La montagna chiede umiltà, rispetto: dalla cima, raggiunta, si potrà solo scendere a valle. Scendere, come salire, è parte dell’avventura di conquista, come per gli antichi generali della storia: si va, si conquista una terra, si torna a casa. Ma solo chi torna racconta: e le cicatrici diventeranno cimeli».
Coraggio
L'arrampicata, o climbing, è uno sport outdoor o indoor che consiste nello scalare rocce o pareti artificiali solo con la forza di braccia e gambe. Nasim Eshqi è una climber iraniana di 41 anni: ha aperto più di 80 vie in stile sportivo e tradizionale in Oman, Emirati Arabi Uniti, Armenia, India, Turchia e Georgia. Ha aperto vie fino all’ottavo grado e compiuto molte prime ascensioni e prime ascensioni femminili in stili differenti, anche se preferisce quello alpino. Inoltre, è stata insignita del King Albert Memorial Award per «la sostenibilità e l’eccezionale servizio prestato in relazione alla montagna».
Su di lei nel 2000 hanno girato un documentario, Climbing Iran, ma attraverso Nasim trovano voce e visibilità tutte le donne dell’Iran, perché, come dice lei: «Non risolvi nulla piangendo, lassù senti davvero che stai sfidando te stesso perché sulla roccia trovi la felicità, e perché le montagne hanno una grande energia. Lassù si martella per la vita, per liberare la rabbia ingabbiata e urlare di paura e di gioia quando si è in cima”.
Filosoficamente parlando il “mountain climbing” rappresenta il desiderio umano di superare gli ostacoli, e raggiungere qualcosa che valga di più di una quotidiana esperienza. Lentamente, presa dopo presa, tracci la tua sequenza di mosse che ti portano in alto. Metti il piede sinistro lì, e ti bilanci: con il destro sali, magnesite sulle mani, e lentamente l’impossibile diventa possibile.
Con cura, attenzione, rinuncia, in una parola, con coraggio. Nulla arriverà, nulla dovrà mai arrivare come eccezione, come privilegio: un puzzle, una pista, si risolvono sempre con il corpo e con la mente.
Ritengo tuttavia che in tempi di polizia morale, tempi a volte molto bui per gli esseri umani, nessuna filosofia, nessuna analisi, nessun aforisma, per quanto profondi, potranno reggere il confronto, per intensità e pienezza di senso, con le storie che ho letto, che ho cercato di riproporre oggi, e che penso possano aiutarci a capire che forza e potere non sono la stessa cosa: il potere infatti nasce solo dove gli individui, tutti gli individui, agiscono insieme, ma se la loro forza cresce solo individualmente, il potere svanisce. Nessuna forza sarà mai abbastanza grande per sostituire il potere, e ovunque la forza si troverà a confronto con esso, sarà sempre lei ad avere la peggio.
Che cosa distingue, per concludere, queste tre donne, Jacinda Arden, Tamara Lunger, Nasim Eshqi?
Nulla. Assolutamente nulla. Sono tre donne potentissime.
Per comprenderle e apprezzarle appieno dovremo però accettare che – esattamente come la gravità attira tutti giù con la stessa forza, ma non per questo abbandoniamo la sfida – rinuncia e coraggio sono i due lati di una stessa medaglia, e sono entrambi vincenti.
In un mondo in cui costantemente per loro si rivendica orizzontalità, il mio augurio alle donne è che la loro vita, la nostra vita, possa essere sempre, anche e forse soprattutto, verticale.
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