I gestori dei grandi fondi dichiarano guerra alla plastica. Non era mai accaduto prima che una coalizione di investitori così numerosa e autorevole, con asset per 10 miliardi di dollari, esercitasse pressioni ufficiali sulle aziende per convincerle a ridurre il consumo di plastica e a non mettersi di traverso alle politiche che vanno in questa direzione: Trattato globale sulla plastica e Regolamento Ue su imballaggi e rifiuti da imballaggio. È accaduto poche settimane fa negli Stati Uniti. Ne ha dato notizia il Financial Times. Amazon, McDonald’s, PepsiCo, Tesco, Carrefour, Danone e altre 24 grandi società, che operano a livello internazionale nei settori dei beni di consumo, della vendita al dettaglio e di generi alimentari, si sono viste recapitare un documento firmato da 183 investitori (tra questi, Amundi, Legal and General Investment Management, Aviva Investors, Axa Investment Management e Rockefeller Asset Management). Chiedono una drastica riduzione della dipendenza dalla plastica. Come? Eliminandola dai prodotti monouso, riducendo il consumo di materiali e investendo in processi di riutilizzo degli imballaggi. «In caso di contromisure tiepide o nulle - mettono in guardia i firmatari del testo - le aziende andranno incontro a seri rischi finanziari».
È una presa di coscienza inedita, forse tardiva, ma importante. Vbdo, l’Associazione olandese degli investitori per lo sviluppo sostenibile, stima che l’inquinamento da plastica, che sta ‘uccidendo’ anche gli oceani, costi alla società oltre 100 miliardi di dollari ogni anno. Solo il 9% viene riciclato su una produzione che dagli anni Cinquanta in poi ha superato quota 8,3 miliardi di tonnellate. Il 19% viene incenerito, il 50% viene assorbito dalle discariche legali, il 22% diventa materiale di roghi e discariche a cielo aperto.
La situazione non è migliore se allarghiamo lo sguardo all’intero universo dei rifiuti. Rispetto agli inizi degli anni Duemila, utilizziamo e buttiamo il doppio della plastica La Banca Mondiale ha previsto che, se non si interviene con determinazione e rapidamente, i rifiuti cresceranno del 70% entro il 2050. E per quella data la produzione di rifiuti nell’Africa subsahariana triplicherà rispetto ai livelli attuali mentre l’Asia meridionale ne raddoppierà il flusso. Se poi guardiamo solo al nostro “interesse domestico”, ci accorgiamo che l’Italia, pur vantando performance eccellenti a livello europeo nel riciclo con gap tuttavia enormi tra le diverse regioni, convive con l’incapacità di ridurre a monte la produzione dei rifiuti, con una filiera che zoppica, con impianti carenti e una produzione di rifiuti delle imprese quasi “fuori controllo”.
Tutto questo materiale lo abbiamo portato al tavolo della discussione con Nicolò Valle, economista e ricercatore Ref Ricerche (https://laboratorioref.it/), società indipendente che affianca aziende, istituzioni, organismi governativi nei processi conoscitivi e decisionali. Il laboratorio per i servizi pubblici locali di Ref ha licenziato poche settimane fa un Rapporto sui rifiuti delle imprese. Ebbene, la loro produzione cresce a ritmi superiori a quelli del Pil. È più elevata di quella di Francia e Germania. Le imprese in Italia producono ogni anno oltre 80 milioni di tonnellate di rifiuti, un volume pari al doppio dei rifiuti prodotti dalle famiglie e il trend è in costante crescita. La quota più corposa va in capo a scarti dalla lavorazione dei rifiuti, imballaggi e fanghi della depurazione delle acque: 48 milioni di tonnellate, +68% negli ultimi dieci anni.
Sono numeri che inchiodano a chiare responsabilità…
«È vero, neppure la pandemia ha invertito la tendenza. Nonostante il fermo di alcune attività, la produzione di rifiuti per unità di Pil ha continuato a crescere. Produciamo più rifiuti degli altri Paesi europei nella manifattura e nei servizi. Trattiamo come rifiuti scarti che potrebbero essere reimmessi nei processi produttivi come materie prime seconde. Produciamo addirittura più rifiuti e scarti nella gestione e trattamento dei rifiuti stessi. Rappresentano circa un terzo del totale. Da una parte è una virtù, perché testimonia la spinta al riciclo del nostro Paese, dall’altra è una anomalia: il recupero di materia deve sopperire alla mancanza di impianti per il recupero energetico. Tutto questo non va letto come minore efficienza o attenzione alla prevenzione del nostro sistema industriale, piuttosto come lo specchio dei ritardi nella disciplina dei “sottoprodotti»
Ed è la sola criticità dei processi industriali?
«C’è sicuramente anche un problema legato alla chiusura del ciclo: le imprese e pure gli impianti di trattamento faticano spesso a collocare lo scarto finale che andrebbe almeno recuperato energeticamente per non mandarlo in discarica. In questo senso la filiera va efficientata. Ci sono anche altre criticità sui rifiuti plastici, sui fanghi… In questo caso si dovrebbe intervenire a livello normativo, rafforzando la disciplina dei sottoprodotti. Ci ritorno su questo tema perché è fondamentale: siamo al confine tra prodotto e rifiuto. Ma logiche di condivisione industriale potrebbero rimettere subito questi scarti nei circuiti di produzione».
Dalla vostra analisi è completamente assente il settore dell’edilizia, perché?
«Abbiamo volutamente escluso i rifiuti edili perché sarebbero stati fuorvianti. I rifiuti da costruzione e demolizione rappresentano una fetta davvero importante. Sono abbastanza facili da trattare. Il problema di questa filiera è che non riesce a decollare un mercato delle materie prime seconde».
In un’ottica più generale, quali sfide attendono il nostro Paese?
«La sfida è doppia. Sul fronte produzione è necessario investire sulla prevenzione e raggiungere il disaccoppiamento tra crescita economica e produzione dei rifiuti, riducendo la quantità prodotta da utenze domestiche e soprattutto da imprese. Contemporaneamente, la filiera deve investire sull’incremento dei tassi di riciclo: recuperare materia ed eventualmente anche energia da scarti che non sono più recuperabili. In questo modo ci potremmo avvicinare a un sistema economico circolare, creando un vero e proprio mercato di prodotti riciclati».
L’industria del riciclo ce la può fare da sola?
«Assolutamente no. Nonostante in Italia rappresenti un’eccellenza, necessita che le imprese investano nella ricerca di prodotti pensati e realizzati proprio per il riciclo. Ancora meglio, con componenti riutilizzabili».
La previsione della Banca Mondiale di un aumento dei rifiuti del 70% entro il 2050 è tuttora valida?
«I numeri sono certamente credibili. Ma nel frattempo in Europa qualcosa è cambiato anche rispetto ai Paesi in via di sviluppo. Per anni i Paesi membri sono stati protagonisti di esportazione dei rifiuti nei Paesi a basso reddito. Cina, Turchia, Indonesia e molti altri hanno però reso più stringente la normativa sulle importazioni, aumentando le restrizioni. L’Unione Europea, da parte sua, ha regolamentato la questione, indicando gestione e trattamento dei rifiuti all’interno del suo territorio, senza provocare danni ambientali ad altri».
È una indicazione che può contribuire anche ad un approvvigionamento “domestico” di materie prime?
«Senz’altro. Lo abbiamo visto l’anno scorso con la carenza di materie prime. Il rifiuto è potenzialmente una risorsa preziosa. Si trasforma in stock di materie prime riciclate e va a compensare la carenza europea e italiana. Un altro tema molto importante è quello dei Raee, i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, che sono in forte crescita. Sono rifiuti che spesso seguono circuiti di recupero che sfuggono alle logiche della legalità, ma sono una grande risorsa. Dal recupero dei componenti dei rifiuti elettronici si possono estrarre materie prime come rame e bronzo. E non va sottovalutato il riciclo dei pannelli fotovoltaici».
Dentro questa visione globale, è però necessario creare anche le condizioni per una domanda di rifiuti riciclati…
«Certo, ma gli strumenti non mancano. Si può obbligare a un contenuto riciclato nella produzione. Si possono inserire obblighi nei bandi di gara o applicare criteri ambientali minimi. A questo sforzo deve poi corrispondere ovviamente una filiera di riciclo efficiente. E si devono realizzare impianti per la chiusura del ciclo, specialmente per il recupero energetico dei rifiuti (termovalorizzatori, ndr). La discarica deve diventare davvero l’ultima alternativa possibile».
Nel frattempo il Pnrr ha presentato due riforme: Pngr, Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti, e Strategia nazionale per l’Economia Circolare. Che cosa ne pensa di questi strumenti?
«Il Pnrr ha dedicato poche risorse finanziarie alla gestione dei rifiuti, circa 2,1 miliardi sul totale del Piano. Ha però messo in campo due riforme molto importanti. E secondo noi, anche l’approccio “meno finanziamenti, più riforme” è corretto. Il settore gestione rifiuti è uno degli anelli fondamentali dell’economia circolare e non ha tanto bisogno di soldi quanto di un contesto normativo certo, di testi autorizzativi snelli, di supporto delle amministrazioni pubbliche all’avvio degli impianti, di dialogo con il territorio affinché le strutture di trattamento vengano accettate dalla popolazione. Al ministero stanno lavorando in questa direzione. È stato realizzato l’End of Waste sui prodotti edili che dovrà essere rivisto, c’è stato un avanzamento sul tessile con un decreto in consultazione e sono state pubblicate diverse graduatorie di progetti. Siamo di fronte a due riforme importanti. Se mi chiede come e quanto impatteranno sul settore, solo il tempo lo dirà».
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