Occorre realizzare le condizioni tributarie affinché il lavoro domestico esca dallo stato di irregolarità che a fronte di circa 900mila tra colf, badanti e babysitter assunte e registrate all’Inps, ne ha altrettante, se non di più, nel sommerso. Una proposta di nuovo trattamento fiscale del comparto è allo studio del Centro Einaudi di Torino per conto di Nuova Collaborazione, la più antica associazione di datori di lavoro domestico. Il gruppo di lavoro è diretto dall’economista Giuseppe Russo e ne fanno parte i ricercatori Ivan Lagrosa e Alessandro Stanchi. Il report verrà reso noto nel prossimo autunno. In questa intervista ce ne anticipa l’architettura di fondo.
Professor Russo, come potrebbe cambiare il sistema fiscale sul lavoro domestico?
«L’obiettivo è semplice: incentivare la compliance, al contrario di quel che accade oggi in cui di fatto si accetta che la gran parte del lavoro domestico sia a nero per la semplice ragione che conviene ad entrambe la parti: il lavoratore incassa qualche euro in più, il datore di lavoro ne paga qualcuno in meno».
Con il rischio che il "gioco" venga scoperto e scattino le sanzioni?
«Sì, ma è un rischio bassissimo perché non è che si possono mandare gli ispettori del lavoro in tutte le case. L’unico modo per scoprire il nero è che il lavoratore denunci il datore di lavoro, ma non è cosa frequente».
Serve quindi un sistema tributario completamente diverso. Che cosa ha in mente?
«L’idea di fondo è quella di cercare un sistema tributario alternativo: nel Nord Europa vi sono sconti fiscali per chi mette in regola il lavoratore ma è probabile che da noi in Italia non basti. Occorre partire dalla premessa che il lavoro domestico è un bene primario e non di lusso. Primario nel senso che da una parte serve per produrre altro lavoro, altrimenti qualcuno deve stare a casa a badare i piccoli o gli anziani, e dall’altra perché i baby boomers invecchiano e la domanda di servizi inevitabilmente aumenterà».
Insomma, le deduzioni del costo del lavoro domestico dal reddito non bastano. Come si può andare oltre?
«No, non bastano. Dobbiamo garantire al lavoratore un percorso formativo, fino ad arrivare alla certificazione delle qualifiche raggiunte dal lavoratore, che si potrebbe finanziare grazie alle risorse che il sistema fiscale incassa. L’offerta di lavoro di qualità impatta sulla produttività totale dei fattori, e quindi sulla crescita; quindi, l’istruzione e la formazione professionale longlife è una priorità, ma curiosamente non lo è per il lavoro domestico. Il punto è che oggi il lavoro domestico è considerato un consumo, ma tra dieci anni non sarà più così. E diventerà indispensabile per liberare risorse da impiegare nel ciclo produttivo nazionale. Se un genitore rinuncia a lavorare, si abbassa il Pil potenziale».
Dando anche modo alle persone di scegliere tra la Rsa e l’assistenza domiciliare…
«Certamente. Noi da liberali non vogliamo imporre nulla. Il mercato deve offrire le due soluzioni…».
Per non dire dei vantaggi previdenziali che deriverebbero dall’emersione del nero…
«Certamente. L’emersione del lavoro domestico dal nero in cui galleggia produce esternalità importanti. Intanto, i lavoratori pagano più tasse, e poi scatterebbero più tutele previdenziali, sia a livello di contributi pensionistici (oggi le pensioni dei lavoratori domestici sono bassissime) sia di più garanzie in tema di sicurezza sul lavoro e trattamento migliore degli infortuni».
Insomma, non ci sono ragioni per non cambiare il sistema fiscale che presidia il lavoro domestico…
«Esatto. Partendo però da una premessa chiara. La famiglia non è solo un agente che consuma; la famiglia è una unità produttiva. Produce le forze lavoro potenziali e, insieme al sistema di formazione e istruzione, le forze lavoro effettive. Il lavoro domestico riduce il gap tra le forze di lavoro effettive e potenziali. È una esternalità da valutare e se la priorità è il Pil potenziale allora occorre rapidamente porre mano al sistema. E la nostra proposta tributaria ha proprio l’ambizione di fare questo».
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