Da qualche tempo escono i numeri del salvataggio del sistema bancario europeo. Qualche settimana fa il Fondo Monetario disse che ci volevano 200 miliardi di euro per rafforzare il patrimonio delle banche. E giù proteste. È di questi giorni lo studio di un importante istituto di ricerca tedesco – il Deutsche Institut für Wirtschaftsforschung (DIW) – che sostiene che è necessaria una cifra appena inferiore per la sola Germania. E giù imbarazzo.
Si ha l’intrecciarsi di due fenomeni: l’interdipendenza del sistema bancario e la sua leva elevata. L’esposizione di un sistema bancario nazionale verso gli altri paesi è la somma delle obbligazioni degli altri paesi detenute, più i crediti erogati alle banche degli altri paesi, più altre voci minori. Per esempio, le banche francesi sono esposte per un totale di 496 miliardi di dollari in Italia e per 65 miliardi di dollari in Grecia – circa sette volte di meno. Questo vuol dire che se andassero incontro a delle perdite – molto probabilmente in Grecia, poco probabilmente in Italia – si troverebbero in difficoltà soprattutto per effetto della leva elevata.
Le banche europee hanno, infatti, una leva molto alta. Ossia, il loro attivo – i crediti verso la clientela e le varie attività finanziarie – è in media venticinque volte il loro patrimonio netto – il capitale versato più gli utili trattenuti nel corso del tempo. Vista in modo speculare, il patrimonio netto è il 4% dell’esposizione delle banche (4%x25=100%). Ossia, vista in termini tecnici, il loro passivo può reggere le perdite fino al 4% – il capitale di rischio – prima di arrivare a intaccare le altre voci di finanziamento: i depositi, i debiti verso altre banche, le obbligazioni. I depositi sono garantiti dalle banche centrali, perciò oltre il 4% di perdite sull’attivo si intaccano i debiti verso le altre banche, nonché le obbligazioni emesse dalle banche stesse. Per questa ragione le banche sono riluttanti a prestarsi il denaro fra loro. Insomma, il ridimensionamento dell’attivo tendente verso il 4% schiaccerebbe il patrimonio delle banche. Per riprendere l’esempio delle banche francesi, se queste perdessero solo il 4% del loro patrimonio investito in Italia e in Grecia, avrebbero una minusvalenza di oltre venti miliardi ((496+65)x4)/100). Venti miliardi sono, allo stesso tempo, una frazione dei loro investimenti, ma sono parecchio rispetto al loro patrimonio netto.
Se nei prossimi anni le banche europee vedessero peggiorare la qualità dei loro crediti verso le imprese e le famiglie – un evento non remoto se l’economia cresce poco – e se dovessero registrare perdite sulle obbligazioni dei paesi europei malmessi, ecco che il loro patrimonio netto potrebbe non essere sufficiente. Da qui l’idea della ricapitalizzazione da cui eravamo partiti.
Il punto è chi ricapitalizza le banche. Qui si ha l’intreccio fra il ragionamento tecnico e quello politico.
Se gli aumenti del capitale delle banche fossero fatti con i prezzi correnti, che sono notevolmente inferiori a quelli che si avevano anche solo pochi anni fa, ci rimetterebbero gli azionisti storici, che vedrebbero diluire molto la propria quota, a meno di sottoscrivere anche loro (1). I nuovi azionisti dovrebbero essere attratti dai bassi prezzi correnti e quindi potrebbero sottoscrivere. Le prospettive del settore bancario non sono però rosee né per i vecchi né per i nuovi azionisti. Dovendo ricapitalizzare anche attraverso gli utili non distribuiti, le banche erogheranno, infatti, dei dividendi contenuti per molti anni. E dunque chi sottoscrive non potrà avere un dividendo elevato. Se il settore bancario non è attraente per i privati, ecco che torna in gioco l’intervento pubblico. Molti però fanno fatica a capire perché mai il denaro pubblico debba andare a salvare chi ha rischiato più del necessario. Questo scetticismo complica la soluzione del problema delle banche europee.
(1) Se in passato la banca valeva in Borsa 100 euro, il 10% costava 10 euro. Se la banca adesso vale 50 euro e deve varare un aumento del capitale di 50 euro, chi prima aveva il 10% si trova, se non sottoscrive, con il 5%. Sottoscrive allora l’aumento del capitale, e dunque investe per avere il 10%, altri 5 euro. Alla fine, per avere il 10% ha investito 15 euro per una banca che vale 100, mentre in passato con 10 euro aveva il 10% di una banca che valeva sempre 100 euro.
L’articolo è stato pubblicato anche su L’Inkiesta del 21 settembre 2011:
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