I conti pubblici italiani non sono tanto peggiori di quelli dei paesi europei giudicati virtuosi, eppure noi paghiamo molto più degli altri la sottoscrizione delle obbligazioni. Quale potrebbe essere la ragione della marcata differenza a nostro sfavore? C’è chi pensa che la si debba al governo incapace di mettere in ordine le cose. Una volta ci si appellava al fattore K per sostenere che il sistema era bloccato dall’opposizione comunista, oggi si potrebbe pensare che sia il fattore SB (Silvio Berlusconi) a bloccare il sistema, questa volta dal governo e non dall’opposizione. Sono due le cose da dimostrare per proseguire nel ragionamento sul fattore SB: prima di tutto, se è vero che i nostri conti non sono peggiori; poi, se ci sono meccanismi che ci sfavoriscono, chiunque sia al governo.
Eccoci alla prima cosa da dimostrare. I nostri conti mostrano un debito pubblico maggiore della media (il famoso 120%), ma con una scadenza (quanta parte scade e va rinnovata ogni anno) simile a quella degli altri. Il debito pubblico si forma a partire dai deficit pubblici finanziati con l’emissione di obbligazioni. Il nostro deficit pubblico è migliore di quasi tutti quelli degli altri. Ergo: abbiamo un gran debito che scade lentamente e che è alimentato poco dal deficit (per i dettagli, nota 1). Non siamo messi così male.
Allora perché paghiamo molto di più per farci prestare il denaro? I meccanismi che rendono fragile il debito italiano sono due: la mancanza di una moneta propria e gli investimenti degli operatori passivi.
Ecco il primo meccanismo (2). Si abbiano due paesi con la finanza che vuole uscire dal loro debito pubblico. Nel caso, per esempio, britannico sono vendute – dalla finanza ormai diventata scettica sulle prospettive del paese – le obbligazioni emesse dal Tesoro di Sua Maestà. Il loro prezzo flette. (I rendimenti salgono: le obbligazioni, infatti, hanno la cedola fissa, per cui i rendimenti possono salire solo se il prezzo scende.) A fronte delle obbligazioni vendute, la finanza si trova ad avere delle sterline, ma non più delle attività finanziarie emesse in sterline. Queste sterline possono essere lasciate in un conto corrente oppure vendute sul mercato dei cambi per avere, per esempio, degli euro. In questo caso, il cambio della sterlina flette. Dunque, prima flette il prezzo delle obbligazioni e poi flette il prezzo della moneta della Gran Bretagna. Se la doppia flessione è sufficiente per attrarre nuovi investitori, si ha che le obbligazioni sono comprate di nuovo. Se non ci fosse una nuova corrente di acquisti, la banca centrale britannica potrebbe comunque comprare le obbligazioni del Tesoro. La liquidità resta «imbottigliata» nel mercato finanziario britannico e prima o poi viene impiegata. Le sterline cambiano di mano, ma restano sempre dello stesso ammontare. Comunque sia, non si ha una contrazione della liquidità britannica.
Nel caso italiano sono vendute – dalla finanza ormai diventata scettica sulle prospettive del paese – le obbligazioni emesse dal Tesoro. Il loro prezzo flette. A fronte delle obbligazioni vendute, la finanza si trova ad avere solo degli euro, ma non più delle attività finanziarie italiane emesse in euro. Questi euro possono essere venduti sul mercato dei cambi per avere, per esempio, delle sterline. Il cambio dell’euro flette. Dunque, flette il prezzo delle obbligazioni e flette il prezzo della moneta europea e quindi anche dell’Italia. Se la doppia flessione è sufficiente per attrarre nuovi investitori, si ha che le le obbligazioni italiane sono comprate di nuovo. Si noti la differenza rispetto al caso britannico: gli euro ottenuti in cambio del debito pubblico italiano possono anche non essere venduti per ottenere altre monete. Essi possono essere impiegati – senza passare dal mercato dei cambi – per comprare il debito di altri paesi dell’area dell’euro giudicati più attraenti. Infine, il debito pubblico italiano non può essere comprato dalla banca centrale italiana. La liquidità non resta «imbottigliata» nel mercato finanziario italiano e perciò non è detto che – come nel caso britannico – prima o poi sarà impiegata in Italia. Gli euro cambiano di mano, restano sempre dello stesso ammontare nell’Europa dell’euro, ma non necessariamente in Italia. La liquidità in Italia potrebbe perciò contrarsi. Per fare in modo che il debito sia sottoscritto, il Tesoro italiano – per attirare la liquidità ormai evaporatasi – deve offrire rendimenti maggiori.
Questo primo meccanismo, che incentiva a vendere i titoli italiani come quelli di tutti i paesi europei fintanto che non si avrà un debito pubblico in comune, è potenzialmente in opera chiunque sia al governo.
Passiamo al secondo meccanismo. Esistono gli investitori passivi fra i fondi comuni, i fondi pensione e le assicurazioni. Essi comprano gli indici, non scelgono i titoli singolarmente. Gli indici sono composti dalle azioni e dalle obbligazioni. Chi volesse comprare passivamente il debito europeo comprerebbe l’indice, ossia, alla fine, comprerebbe i debiti secondo il peso che il debito di ciascun paese ha in rapporto al debito pubblico in euro complessivo. Se il debito italiano fosse pari al 40% del debito europeo, ecco che il nostro fondo pensione comprerebbe, su 100 euro investiti, 40 euro di BTP. Se fosse il 20%, comprerebbe 20 euro.
Bene, che cosa è successo? Il debito italiano è fra i pochi che sono cresciuti molto poco (3). È cresciuto poco in termini assoluti, perché i nostri deficit sono stati minori di quasi tutti quelli degli altri (ed è anche cresciuto meno degli altri in termini relativi – ossia in rapporto al PIL). Crescendo meno degli altri, il suo peso relativo negli indici delle obbligazioni in euro emesse dai Tesori è diminuito. Secondo i conti di Stefano Puppini (4), il nostro debito era pari al 40% circa del debito pubblico in euro nel 2000, ed è pari al 20% circa oggi. Il debito italiano, proprio perché è cresciuto meno di quello degli altri, è comprato di meno dagli investitori passivi. Ossia, essendo gli italici diventati (relativamente) meno viziosi, si è dimezzata la domanda di titoli del Belpaese per ogni incremento nel tempo degli investimenti detti passivi.
Questo secondo meccanismo, che incentiva a comprare una minor quantità di titoli italiani se l’Italia va relativamente meglio, è in opera chiunque sia al governo.
Siamo alle conclusioni. Il differenziale di rendimento (lo spread, come ormai è pop dire) fra il nostro debito e quello altrui è – vero che i nostri conti non sono peggiori di quelli altrui – il frutto di tre fattori: 1) la liquidità che da noi evapora facilmente, e non necessariamente per la nostra mancanza di virtù; 2) i minori acquisti di titoli italiani degli investitori passivi, come conseguenza della nostra relativa virtù; e, finalmente, 3) SB. Non siamo in grado di stabilire il peso dei tre fattori. Ma se i primi due hanno un qualche peso, quello del terzo non può essere pari al 100%.
(3) Deutsche Bank, Global Banking Sector, Credit Quality in a Deleveraging World, settembre 2011, tavole 21 e 22.
L’articolo è stato pubblicato anche su L’Inkiesta:
http://www.linkiesta.it/ma-quanto-pesa-silvio-berlusconi-sul-nostro-debito
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