Sono passati otto anni da quel gennaio del 2015 quando (quasi) a sorpresa il Governo di Matteo Renzi decideva per decreto-legge che le banche popolari con un patrimonio superiore agli 8 miliardi dovevano trasformarsi in società per azioni entro 18 mesi. Un decreto al limite della costituzionalità: che necessità ed urgenza (requisiti indispensabili) ci può essere in una disposizione che lascia un anno e mezzo di tempo per essere attuata?

Ma tant’è. La forma del decreto, rispetto a un semplice disegno di legge, aveva il vantaggio di dover essere approvato dal Parlamento entro due mesi, pena la decadenza. E così è avvenuto con un passaggio alle Camere più formale che sostanziale: in fondo ben pochi parlamentari avevano qualche confidenza con le tecniche bancarie e le strategie finanziarie. Ci si è fidati di un ministro dell’economia esperto come Pier Carlo Padoan e della palese benedizione della Banca d’Italia.

Azzerata per decreto l’autonomia delle grandi popolari

L’obiettivo della riforma era ufficialmente quello di “rendere più forte il sistema bancario” (parola di Renzi) rendendo contendibile sul mercato il controllo di istituti che erano cresciuti negli anni mantenendo immutata l’originaria formula cooperativa, una formula che vede tutti i soci sullo stesso piano: una testa un voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute.

Una per una le dieci banche popolari oggetto del decreto hanno obbedito alla legge (anche perché altrimenti rischiavano la perdita della licenza bancaria). Solo la Banca popolare di Sondrio ha tentato di opporsi con motivati ricorsi ad ogni livello, dal Consiglio di Stato alla Corte costituzionale, alla Corte di giustizia europea ottenendo tuttavia solo una proroga della scadenza e alla fine di dicembre del 2021 anche la banca valtellinese ha dovuto cambiare Statuto e forma giuridica. Nel frattempo lo scenario delle altre grandi banche popolari è profondamente cambiato e non proprio nei termini del rafforzamento decantato dal Governo di allora.

Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, gli autori della riforma delle Banche popolari

Un grande riassetto con l’addio di molte banche

E si può scoprire così che sono più le banche scomparse di quelle sopravvissute. Il Credito Valtellinese è stato conquistato e assorbito dai francesi del Credit Agricole. Le banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) sono scomparse dopo essere state integrate in IntesaSanpaolo. Quest’ultima ha conquistato Ubi banca che a sua volta aveva assorbito da poco un’altra popolare, Banca Etruria. La Banca popolare di Bari è passata, dopo vicissitudini giudiziarie, sotto il controllo pubblico del Mediocredito Centrale. Il Banco popolare (che raggruppava Verona, Lodi e Novara) si è fuso con la Popolare di Milano, in posizione dominante, dando vita a BancoBpm (il cui maggior azionista è ancora il Credit Agricole con il 10%)

L’unica banca ex-popolare che si è concretamente rafforzata è stata Bper (già Banca popolare dell’Emilia-Romagna) che ha assorbito numerose banche in difficoltà, soprattutto nell’ambito delle Casse di Risparmio, come la grande Carige e la piccola Vignola.

L’attivismo su molti fronti di Unipol

Sarà un caso ma Unipol, il gruppo delle cooperative “rosse” divenuto un grande potere finanziario, è ora il maggior azionista sia di Bper con quasi il 20% del capitale, sia della Popolare di Sondrio con il 9%. Un attivismo molto particolare iniziato ben prima della trasformazione obbligata in spa: come se qualcuno avesse sussurrato ai dirigenti bolognesi, vicini al Pd, quello che sarebbe stato deciso dal Governo guidato dal Pd. Solo un’ipotesi, ovviamente, mentre è documentato il fatto che Matteo Renzi qualche giorno prima del varo del decreto ne abbia dato notizia a Carlo De Benedetti ispirandogli qualche fruttuosa operazione di borsa: operazione comunque giudicata penalmente irrilevante dalla magistratura.

Ma c’era veramente bisogno di cancellare la storia delle grandi popolari, una storia di partecipazione, di legami con il territorio, di concreta vicinanza con l’economia? No, non vi è nessuna prova che la forma giuridica di banca cooperativa abbia in qualche modo ostacolato la crescita di questi istituti di credito e messo in crisi il sistema finanziario.

E’ perlomeno temerario pensare che fossero la banche popolari il vero problema della solidità del sistema bancario.

Fonte: assopopolari.it

La finanza italiana, una storia (anche) di fallimenti

È vero che la storia della finanza italiana è anche la storia di fallimenti, di dissesti e bancarotte, ma è altrettanto vero che le crisi hanno interessato tutte le tipologie istituzionali (Spa, banche popolari, casse di risparmio, banche di credito cooperativo, banche di famiglia) e di tutte le dimensioni (grandi, medie e piccole).

Si può iniziare con la fine dell’Ottocento con lo scandalo della Banca romana, il padre di tutti gli scandali bancari italiani, esploso dopo un’indagine da cui emersero gravi irregolarità nella concessione dei prestiti con fenomeni di corruzione di giornalisti e politici.

Negli anni più recenti sono passati alla storia i dissesti del Banco Ambrosiano nel 1982, con le trame occulte di Roberto Calvi, della Cassa di risparmio di Prato, di quella di Venezia e delle piccole casse meridionali nel 1995 e nello stesso anno il crollo del Banco di Napoli, la più grande banca del Mezzogiorno. Nessuna di queste era una banca popolare.

E delle quattro banche in difficoltà proprio nel 2015 e per le quali era stato avviato un processo di risoluzione della crisi (Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara, Carichieti) solo la prima era una banca popolare. Così come non era, e non è, certo una popolare quel Monte dei Paschi di Siena che con la sua crisi ha riempito le cronache finanziarie degli ultimi anni.

IntesaSanpaolo e Unicredit, grandi grazie alle acquisizioni

Si potrebbero poi citare molte altre banche il cui fallimento è stato evitato grazie a un grande numero di fusioni e acquisizioni sotto l’attenta e interessata regia della Banca d’Italia. I due grandi gruppi che attualmente dominano il sistema bancario italiano, Intesa Sanpaolo e Unicredit, sono cresciuti sull’onda di piccole o grandi acquisizioni, alcune per salvare istituti in difficoltà, altre in una logica win win per rafforzare strutture e dimensioni.

Il grande riassetto del sistema bancario è iniziato negli anni 90 del secolo scorso con l’approvazione del Tub (Testo unico bancario) e con la legge Amato-Ciampi che ha trasformato le Casse di risparmio in spa.

Alla fine del 1993 in Italia operavano 1037 banche che nel 1999 erano già divenute 876 scese poi a 760 alla fine del 2010 ed ora sono poco più di 400. Un destino analogo lo hanno avuto anche gli sportelli scesi negli ultimi dieci anni da 32.881 a 21.650. In oltre tremila comuni non vi è alcuna presenza delle banche.

Un processo di desertificazione bancaria

Solo in parte questo andamento, che è stato chiamato dai sindacati “desertificazione bancaria”, è stato determinato dall’avvento dell’home banking e dal fintech, cioè della possibilità di effettuare quasi tutte le operazioni da remoto. Alla base c’è la volontà di tagliare i costi e di chiudere le presenze contabilmente meno efficienti e redditizie, presenze che tuttavia possono essere importanti per larghe fasce di popolazione e per le piccole e medie imprese nel territorio.

Ma nell’esercizio del credito se è vero che le tecnologie possono fare molto, è ancor più vero che il fattore umano, le relazioni dirette, la valutazione dell’affidabilità sono elementi che non possono essere sostituiti dai più sofisticati algoritmi.

E peraltro le più accurate indagini, come quella curata da Marco Onado dell’Università Bocconi, dimostrano come sia positiva la presenza di banche radicate sul territorio. «Le community banks -spiega Onado - svolgono una funzione importante nell’economia del nostro Paese. La diversità aumenta l’efficienza e la resistenza dell’ecosistema bancario. La ricerca scientifica e i dati Bce conferma che le banche piccole e medie possono essere efficienti e redditizie».

Il ruolo fondamentale di piccoli e medi istituti

Nella zona Euro con circa 350 milioni di abitanti, operano oggi 250 banche e istituti di medie e piccole dimensioni. Negli Stati Uniti, la culla stessa del capitalismo finanziario, con 333 milioni di abitanti, vi sono ben 10.500 community banks e credit unions. Secondo l’economista Stefano Zamagni, “il ruolo delle banche di territorio continua ad essere fondamentale perché le medie e piccole dimensioni sono del tutto compatibili con redditività ed efficienza, come avviene con le multinazionali “tascabili” mentre, caso mai, sono le grandi dimensioni (too big too fail: troppo grandi per poter fallire) a costituire un pericolo per il sistema”.

Il sistema bancario dovrebbe valorizzare le potenzialità dell’economia e della società. I legami con il territorio e con la popolazione, come quelli delle banche popolari, hanno costituito dall’Ottocento a oggi un valore aggiunto importante anche nell’ottica della sostenibilità sociale.

Un valore che rischia sempre più di essere disperso per l’effetto congiunto di leggi velleitarie e di strategie speculative.