Siamo abituati ad averne timore. Certo, bisogna averne rispetto, perché alla fine, dicono gli operativi, i trader, hanno sempre ragione loro. Però i mercati non hanno doti divinatorie. Alla fine, quello che contano sono i prezzi che essi formulano, che sono correttamente l’esito di scambi. Una eccedenza di domanda fa salire i prezzi. E una eccedenza di offerta li fa scendere.

Ieri sono scese davvero molto le obbligazioni italiane, i Btp, che in una sola seduta sono passati da 116 a 113, -2,5%. Anche le Borse sono cadute, in due giorni il Dow Jones ha perso il 2,5% e il Dax il 3,5%, più o meno quanto l’indice italiano. In Italia lo spread ha superato i 200 punti base, pari alla differenza tra il rendimento del titolo governativo italiano decennale (4,2%) e quello del titolo tedesco (2,1%).

In picchiata

A vedere il repentino volgersi all’ingiù dei prezzi è normale preoccuparsi. Le variazioni negative sono di solito segnate in rosso, e dicono gli psicologi comportamentali che le perdite finanziarie infliggano uno stress reale negli investitori, fino a causare panico. Se si innesca il panico, poi è difficile fermare gli indici, perché la paura di perdere troppo genera vendite e il vuoto di acquirenti determina le perdite che si vorrebbero evitare. Per questo qualche volta le negoziazioni sono sospese in caso di eccessi di ribasso, per dare tempo agli investitori di riflettere se sia il caso di continuare a cercare controparti che non esistono.

La giornata
La giornata
Il 15 dicembre in Borsa a Milano. Fonte: Borsa Italiana

A nervi scoperti

Purtroppo, l’eccesso di volatilità in discesa è cosa nota e forse irrimediabile. I mercati non salgono e scendono con la stessa velocità. Le discese sono sempre più repentine delle salite. Ora, gli investitori vengono da un paio di anni che ne hanno scoperto i nervi. Primo, perché la pandemia e il crash collegato (in pandemia la Borsa italiana era scesa del 25% in un solo mese) sono arrivati dopo tantissimi anni di continua crescita, alimentata dalla compiacenza delle Banche centrali che abbassavano i tassi di interesse. Dunque, gli operatori non erano più abituati alle crisi.

Poi, quando la pandemia era stata recuperata, almeno in parte, è arrivata la guerra che ha dato una spallata del 16% in giù alla Borsa. E a ruota della guerra è arrivata l’inflazione, per controllare la quale le banche centrali hanno alzato i tassi di interesse, con il che il valore delle obbligazioni scende, come quello delle azioni.

Le strategie di Fed e Bce

Le azioni scendono il doppio, per l’effetto del minor valore attuale dei dividendi futuri a causa del maggiore tasso di interesse, nonché per l’aspettativa che i tassi più alti determinino una dinamica meno vivace degli utili aziendali. Il 14 dicembre la Federal Reserve ha nuovamente alzato i tassi di interesse. Per la verità li ha aumentati di mezzo punto (quindi per la prima volta non di ¾ di punto), in linea con le aspettative, ma i mercati hanno preso male che gli officials della Fed abbiano fatto intendere che il tasso di interesse finale potrebbe essere superiore al 5% e che i tassi potrebbero restare a lungo per tutto il 2023 a quel livello.

Ieri è toccato alla Bce rialzare i tassi, dal 2 al 2,5%, e nonostante il livello tutto sommato ancora ragionevole dei tassi (l’inflazione è sopra il 10%, ricordiamolo), ai mercati non è piaciuto perché hanno realizzato che i rialzi non finiranno qui; c’è ancora un bel pezzo di strada da fare.

Che questi ragionamenti abbiano determinato le vendite di obbligazioni ed azioni è verosimile ed anzi probabile, che i mercati abbiano sempre ragione un po’ meno.

Che cosa sta succedendo?

  • Primo: non sono stati rialzi sorprendenti. Erano perfettamente attesi, il che significa che avrebbero già dovuti essere compresi nei prezzi.
  • Secondo: se gli operatori pensavano che i tassi di interesse sarebbero rimasti al 5% giusto per il tempo del picco, allora vuol dire che non si erano fatti i conti.
L’inflazione è un fenomeno che ha una forte inerzia. Come le azioni salgono piano e scendono in fretta, i prezzi dei beni al consumo, all’opposto, salgono in fretta e scendono piano, con inerzia, perché nel frattempo gli impulsi dell’inflazione si trasmettono dentro l’economia, dai settori venditori ai settori compratori, che aumentano i prezzi diventando venditori e così via.
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Quindi è evidente a qualsiasi medio conoscitore delle dinamiche economiche che l’inflazione, che negli Usa potrebbe aver toccato il picco (l’ultima variazione mensile dei prezzi dei consumi core, negli Usa, è uscita il 13 dicembre ed era di appena +0,1%), non tornerà indietro come una saetta, ma piuttosto lentamente, il che significa che i tassi di interesse persisteranno intorno ai massimi fino a che i tassi reali non saranno tornati positivi, probabilmente tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024.

Gli investitori non lo sapevano?

Poco provveduti, davvero. Però, con la loro bassa pazienza, con le decisioni prese con ansia e nervoso, essi infliggono ai piccoli risparmiatori ansie che si sarebbero potute ampiamente risparmiare. Se abbiamo ragione, nelle prossime settimane i mercati correggeranno anche questo eccesso di pessimismo, almeno lo speriamo. L’avvento delle macchine che negoziano al posto degli uomini (oggi più del 70% delle negoziazioni è automatizzato) non ha portato vantaggi alla stabilità finanziaria, purtroppo. La ragione è semplice. Le macchine sono programmate da uomini che hanno reso semplicemente più veloce il modo di prendere le decisioni di comprare o vendere, ma non ne hanno mutato i fattori che fanno scegliere un lato della sponda del mercato. Siccome gli algoritmi sono realizzati da bravi programmatori che hanno studiato sugli stessi libri, è normale che gli algoritmi si trovino tutti insieme per lo più dallo stesso lato.

Il semplicismo unidirezionale

Tutti a vendere o tutti a comprare. Non c’è modo migliore per crear bolle o far precipitare i prezzi. L’intelligenza artificiale non c’entra. È semplicismo unidirezionale. Si applica a cuor leggero perché i soldi normalmente non sono di chi scrive i codici di programmazione. Tobin ha proposto una piccola tassa per rallentare la velocità delle scelte, ma non basta davvero.

Vogliamo migliorare gli algoritmi? Si paghino i gestori metà con denaro e metà con depositi vincolati per almeno tre anni dentro i loro algoritmi. Come per miracolo appariranno algoritmi che considereranno finalmente i fondamentali, grandezze sparite dal panorama delle scelte finanziarie.

È curioso che mentre i risparmiatori sono disponibili ad allungare l’orizzonte temporale delle scelte di investimento, gli investitori professionali si perdano negli anfratti degli utili intraday o perfino dentro i millisecondi. Eppure, è così. Il crollo di questi ultimi due giorni non è colpa dei banchieri centrali che hanno alzato i tassi.

È colpa del semplicismo con cui algoritmi poco evoluti ma velocissimi ci hanno speculato sopra, tra l’altro perdendo i soldi dei loro clienti.