Due sorprese hanno accolto i partecipanti all’annuale simposio di agosto che la Fed di Kansas City organizza dal 1978 sulla politica economica. La prima è stata che, a causa del Coronavirus, la serata di gala organizzata per i banchieri centrali è saltata. La seconda è che l’indirizzo di politica monetaria dichiarato da Jerome Powell il 27 agosto cambierà il futuro. La Fed, d’ora in poi, non fermerà l’espansione della moneta quando il target di inflazione (tradizionalmente il 2%) sarà raggiunto.
Continuerà invece la manovra lasca per assecondare un’inflazione anche superiore al 2%, qualora essa sia stata per un periodo prolungato sotto il 2%.
Le ragioni empiriche della scelta
Negli ultimi anni, infatti, il dubbio legame tra inflazione e disoccupazione si è dissolto. L’ultima volta che la Fed alzò i tassi fu nel periodo 2016-2018. La Banca accelerò la manovra restrittiva nella primavera del 2018, quando i disoccupati scesero sotto il 4%, eppure il tasso di inflazione non accennò a salire e si ridusse addirittura all’1,9% a dicembre dello stesso anno, mentre la disoccupazione si mosse anch’essa al ribasso.
Quell’esperienza convinse probabilmente la Fed che la regola standard di politica monetaria non funzionava più. Se l’inflazione del terzo millennio non è più legata al mercato del lavoro, occorre una diversa politica monetaria, che non eserciti una pressione restrittiva inutilmente e perché non cessi la funzione espansiva quando sarebbe utile.
Questo cambiamento è importante per due ordini di ragioni. Il primo è che, anche se non formalmente, è probabile che l’annuncio di Powell sarà seguito nei fatti anche dagli altri banchieri centrali. L’approccio ultra espansivo della politica monetaria è stato anticipato dalla Bank of Japan, che espressamente nei suoi statement di politica monetaria include da tempo non solo un obiettivo del tasso di inflazione superiore al 2%, ma un secondo obiettivo di controllo della curva dei rendimenti, perché sia consistente con il mantenimento di aspettative inflazionistiche e di espansione dell’attività economica. La trasmissione internazionale dei tassi di interesse, poi, determinerà la diffusione del nuovo corso di politica monetaria ultra espansiva. In secondo luogo, tra gli obiettivi non dichiarati ma forse sottintesi dalla nuova politica monetaria ci potrebbero essere i tassi di interesse reali negativi. A ben vedere, infatti, i tassi di interesse reali sono già negativi, negli Stati Uniti, dal mese di novembre 2019 e questo riguarda tanto i tassi a breve termine, quanto i tassi a medio e lungo termine.
L'EVOLUZIONE
Tassi di interesse nominali di politica monetaria, reali decennali e tasso di disoccupazione negli USA
Fonte: elaborazione Centro Einaudi su dati FRED
I tassi reali negativi
Se i tassi di interesse reali fossero negativi per un lungo periodo di tempo, le conseguenze sarebbero importanti. I tassi di interesse dovrebbero orientare le scelte degli investimenti reali, ma con tassi reali negativi, tutti gli investimenti sarebbero buoni e il mercato dei capitali non guiderebbe più gli investimenti reali, il che potrebbe condurre a mantenere imprese poco o per nulla produttive, mortificando la produttività media e il tasso di crescita del Pil.
I tassi reali negativi, altamente probabili nel nuovo corso di Jackson Hole, che propende per tassi nominali bassi o nulli anche con inflazione in salita, favoriscono in secondo luogo i debitori e svantaggiano i creditori. Questa condizione, detta anche di “repressione finanziaria”, perché realizza una redistribuzione dai creditori ai debitori, si è determinata altre volte nella storia, e in particolare dopo le guerre, quando senza un puntello alla sostenibilità dei debiti accumulati difficilmente si sarebbero potuti sostenere gli investimenti e i trasferimenti per la ricostruzione.
La repressione finanziaria generata dai tassi di interesse reali negativi colpisce sia il risparmio che l’industria dell’asset management. Nella fase di discesa dei tassi, infatti, questa ne ha beneficiato, grazia alla rivalutazione dei corsi delle obbligazioni emesse e al sostegno indiretto delle quotazioni delle azioni, il cui prezzo dipende dal tasso di sconto degli utili e si alza quando questo scende. Tuttavia, una volta compiuta la discesa dei tassi, addirittura in territorio negativo, i corsi delle obbligazioni non possono più salire; le cedole diventano nulle o quasi e, per quanto riguarda le Borse, dove si riversano i capitali in cerca di rendimenti, si trovano con quozienti tra i prezzi delle azioni e gli utili aziendali di gran lunga superiori alle medie storiche, il che ovviamente limita i potenziali guadagni dei nuovi investimenti.
Chi paga i costi della repressione finanziaria
La repressione finanziaria, in altri termini, costa sia al sistema macroeconomico (come riduzione della crescita della produttività e del Pil), sia ai risparmiatori e investitori, piccoli e istituzionali; costa ai fondi pensione e costerà a chi sottoscriverà una pensione privata, perché dovrà accantonare di più a parità di vitalizio atteso.
Chi ci guadagnerebbe? Largamente tutti i governi emittenti i debiti pubblici del pianeta, che attraverso la svalutazione monetaria del debito (o la rivalutazione monetaria del Pil sottostante), si troverebbero nella possibilità di risanare le loro posizione, o almeno di provarci. La media mondiale del debito pubblico, secondo il FMI, è infatti giunta alla allarmante soglia del 101,5 per cento del Pil e richiederà qualche azione.
Cambieranno dopo Jackson Hole, e non di poco, anche i risvolti politici di una generalizzata e durevole fase di repressione finanziaria. Dopo la II guerra mondiale essa era stata accettata in cambio di un tasso di crescita del Pil che permetteva a tutti, anche ai creditori sacrificati, di ripristinare la ricchezza dopo le perdite patrimoniali reali inflitte dai tassi reali negativi. Questa volta lo stesso scambio politico non sarà possibile. Bisognerà accontentarsi di convincere i creditori, più rappresentati tra i ceti più facoltosi, che le tasse che i loro figli avrebbero dovuto pagare sono state ricondotte a valori minori e che se si eviteranno i fallimenti degli Stati più indebitati, questo sarà un bene comune. Un messaggio non semplice per qualsiasi classe politica.
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