Le parole che Francesco Antonioli, a nome di Mondo Economico, ha rivolto a noi giovani nell’editoriale che ha seguito l’incontro Economy of Francesco, suscitano fiducia reciproca e richiamano il patto stretto con Papa Francesco a conclusione dell’evento.

Si, perché il senso del patto è stato creare un legame tra chi ha governato e guidato le imprese in questi anni e chi si accinge a farlo e lo farà nei prossimi.    

Papa Francesco ha guardato proprio a chi, come me, ha riempito i primi anni di esperienza lavorativa con sogni e ambizioni, tra cui quella di prendere attivamente parte ai processi di cambiamento. E sono sicura che tanti giovani hanno sentito l’invito del Papa come qualcosa che andava ben oltre i sogni fatti, un invito personale: il primo passo per dare concretezza alle ambizioni.

Io ho la fortuna di aver coniugato nel mio lavoro di ricerca due mie passioni, quelle per l’economia e per l’ambiente. Temi che oggi non possono essere affrontati separatamente. Lo sviluppo economico è imprescindibile per sostenere la popolazione mondiale crescente e permettere a tutti di raggiungere standard di vita più che dignitosi, ma non può pensare di tendere all’infinito se non rispetta i limiti posti dalla natura e non impara a sfruttare i servizi ecosistemici che essa stessa offre, invece che ostacolarli. E al contempo, la cura e la salvaguardia della nostra casa comune necessitano dell’intervento di vere e proprie istituzioni economiche per essere reali ed effettive.

Modelli economici e bene comune

L’evento di Assisi ha sollevato riflessioni sulla necessità di realizzare modelli economici che non creino diseguaglianze, sistemi finanziari che non si approfittino di chi ha già di meno, e cooperazione che non lavori per i più poveri ma con i più poveri.  

Credo che l’invito del Papa più importante sia il ritorno “alla mistica” del bene comune.

Non è più tollerabile che l’interesse particolare, settoriale, vada a discapito della tutela del bene comune.

Si tratta letteralmente di un cambio di paradigma, se consideriamo che è dal ‘900 che l’economia basa il suo impianto teorico e pratico sul valore dei beni privati. Questo ha indubbiamente contribuito a una crescita impressionante del Pil, ma in modo fortemente disomogeneo e depauperando la Terra delle sue stesse risorse.

È molto attuale il tema su cui già ci invitava a riflettere Garret Hardin in “La tragedia dei beni comuni” (1968). Una tragedia che mai come oggi rischia di attuarsi veramente. Il concetto, spiegato con il semplice ma efficace esempio di Hardin, è questo: se tutti gli allevatori sfruttassero un pascolo collettivo per massimizzare il proprio profitto, il vantaggio individuale sarebbe sicuramente superiore ai costi, ma presto il pascolo scomparirebbe per tutti. Ugualmente, l’uso indiscriminato o la contaminazione di qualsiasi bene naturale comune (i pascoli, le foreste, le risorse idriche, l’aria pulita…) provocano un danno collettivo e una situazione difficilmente reversibile.  

Lo sfruttamento delle risorse

C’è un forte sbilanciamento tra chi sfrutta di più le risorse e chi subisce gli impatti diretti dell’impoverimento della Terra. In questo senso, la delocalizzazione e la globalizzazione hanno fatto perdere un po’ il senso dell’orientamento, a produttori e consumatori. È difficile comprendere che l’impatto delle proprie azioni si possa manifestare lontano nel tempo e nello spazio. Il guaio è stato proprio non essersi resi conto di questo per troppo tempo o aver fatto finta di niente.

La presa di coscienza che il nuovo paradigma invoca è questa: essere entrati nell’epoca dei beni comuni. La cooperazione internazionale è l’unico modo efficace per trasformare un circolo vizioso di eccessivo sfruttamento in un circolo virtuoso di rigenerazione continua.

Sappiamo che più sono le parti in gioco più è difficile.

Ce lo insegnano i successi e gli insuccessi dei trattati internazionali in materia di ambiente e di clima. Si è giunti rapidamente ad accordi per contrastare l’ampliamento del buco nell’ozono poiché i Paesi contraenti erano pochi (si trattava dei soli paesi nordici), simili dal punto di vista economico-politico e storico-culturale. Diverso è il caso degli accordi sul clima che coinvolgono tutto il mondo, Paesi con gradi di sviluppo molto diversi, disponibilità di risorse e storico sfruttamento della Terra altrettanto differenti e quindi con interessi difficili da conciliare. È evidente come diventi necessario identificare un’autorità indipendente che promuova decisioni per il bene collettivo.

È un compito che spetta ai governi e alle istituzioni sovranazionali?

Certo. Ma come sempre la politica è sensibile ai segnali che vengono dal basso. Ecco perché le imprese e i consumatori devono essere i primi a sperimentare buone pratiche orientate al bene comune.

Gli inglesi hanno coniato il termine “coopetitive” per indicare una strategia a metà tra competizione e cooperazione, spesso riferita al rapporto che le aziende instaurano con i loro competitors. Significa che aziende concorrenti fanno squadra su certi fronti, magari per scambiarsi informazioni, avanzare richieste comuni. Allora, perché non dichiararsi apertamente dalla stessa parte anche per promuovere la tutela delle risorse naturali? Creare un fronte comune impegnato nella ricerca di innovazioni condivisibili, nel bilanciamento dell’impatto ambientale. Per risolvere problemi ambientali (e sociali) ampi lo sforzo congiunto è un indispensabile catalizzatore per il raggiungimento dell’obiettivo.

La sharing economy

Dal canto loro, i consumatori hanno occasione di esercitarsi con la cultura dell’uso senza possesso. Il contrario di accumulare beni e fare un uso predatorio delle risorse è adottare pratiche di sharing economy, dono e riuso. Principi che fino a qualche anno fa erano difficili da immaginare come parte integrante di un modello economico e che oggi sono opportunità di business e di contaminazione tra mondo profit e non profit.

Sono rimasta colpita dalla schiettezza di Papa Francesco, che non banalizza e non usa mezzi termini. Ha ricoperto i giovani di responsabilità e fiducia. Ci ha esortati a “ridare anima all’economia” e non si è limitato a dirci di incidere concretamente nelle città e nei luoghi di lavoro, ma ci ha incitati ad arrivare “al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi” usando una visione molto più ampia e avveniristica.

Giovani e adulti

I tre giorni virtualmente trascorsi ad Assisi sono stati animati da incontri con economisti e imprenditori di fama mondiale che ci hanno portati a soddisfare il nostro desiderio di continuare a imparare e lasciarci ispirare. Non ci hanno soltanto guidati: insieme abbiamo realizzato un ascolto bidirezionale. Ecco perché l’invito di questa testata di creare un dialogo con noi partecipanti a Economy of Francesco si inserisce perfettamente nello spirito di arricchimento reciproco e cambiamento propositivo.

Non c’è niente che dia più fiducia a un giovane che vedere un adulto non smettere di sognare e guardare con coraggio al futuro.

Economy of Francesco era stato definito come “evento di speranza”.  Così è stato. Una speranza estremamente calata nella realtà, concreta e che si sta già trasformando in azione.