Una delle conseguenze di un’ampia diffusione dei contratti a termine, spesso poco enfatizzata nel dibattito pubblico, è quella di limitare la capacità di fare previsioni sul proprio reddito futuro, per una larga percentuale di lavoratori. Questa scarsa capacità di previsione limita così le opportunità di pianificare decisioni di consumo e di investimento nel tempo.
Un mercato del lavoro in ripartenza
Il 2022 ha fatto registrare una netta riattivazione dei flussi nel mercato del lavoro Italiano, dopo mesi di sostanziale paralisi dovuta a fattori di incertezza economica e a misure di tutela sociale – tra le altre, il blocco dei licenziamenti e gli interventi sul fronte della cassa integrazione.
Nel mese di ottobre 2022, il tasso di occupazione ha raggiunto il 60,5%, valore record dal 1997, l’anno della prima serie storica Istat. Nello stesse mese, il tasso di disoccupazione medio è sceso al 7,8%, mentre quello giovanile al 23,9%,
Le nuove assunzioni da parte di imprese extra-agricole nei primi nove mesi del 2022 sono aumentate del 17% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con una crescita che ha interessato tutte le tipologie contrattuali. Le assunzioni con contratti a tempo indeterminato sono aumentate del 28%, mentre quelle con contratti a tempo determinato del 16%. L’aumento delle nuove assunzioni è stato trainato dalle imprese con più di 15 dipendenti. In particolare, un incremento del 24% è stato registrato nel gruppo di imprese che contano tra i 16 e i 99 lavoratori, mentre tra le piccole imprese l’aumento delle assunzioni si è fermato all’11%.
La maggiore dinamicità del mercato del lavoro non ha però riguardato solo il fronte delle nuove assunzioni. Nei primi tre trimestri del 2022 le stabilizzazioni di contratti a tempo determinato sono aumentate del 61% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Contestualmente, si è registrato un aumento delle cessazioni sia dei contratti a tempo indeterminato (21%) sia dei contratti a tempo determinato (24%).
Dualità del mercato del lavoro
In un contesto di generale ripresa e ritrovata dinamicità, questi numeri fotografano un mercato del lavoro ancora caratterizzato da una forte dualità contrattuale, dove una quota sostanziale dei rapporti di lavoro riguarda posizioni a tempo determinato. Allargando l’orizzonte temporale e considerando i dati trimestrali sul periodo 2005-2019 – durante gli anni pandemici le dinamiche del mercato del lavoro sono state infatti influenzate da misure straordinarie, che renderebbero difficile trarre conclusioni sulle reali condizioni di salute della nostra economia – in media ogni trimestre circa il 15 percento dei lavoratori dipendenti è risultato essere impiegato con un contratto a termine – a tempo determinato o di collaborazione. Il fenomeno riguarda in particolar modo le fasce più giovani della forza lavoro, con una quota di lavoratori precari che supera il 20% tra coloro che hanno tra i 30 e i 33 anni (Figura 1).
Figura 1. Percentuale di lavoratori a tempo determinato
Fonte: elaborazioni proprie su dati Inps.
La tabella 1 mostra come in media, per i non-occupati, la probabilità di trovare un lavoro stabile durante il trimestre successivo sia del 4,7% per gli uomini e del 3,3% per le donne. La probabilità di trovare un’occupazione a tempo determinato è invece dell’8.2% per gli uomini e del 7,9% per le donne. Una volta occupati con un contratto a termine, gli uomini hanno una probabilità di circa il 7,5% di transitare, durante il trimestre successivo, verso un’occupazione stabile e una stessa probabilità di transitare nella non-occupazione. Le donne impiegate con una contratto a termine registrano invece una più alta probabilità di transitare verso la non-occupazione (6,9%), rispetto alla probabilità di transitare verso un’occupazione stabile (5,5%).
Tabella 1. Probabilità di transizioni nel mercato del lavoro
Fonte: elaborazioni proprie su dati Inps. In parentesi sono riportati i dati per le donne. I dati si riferiscono a lavoratori residenti nelle regioni centrali, con 40anni di età.
La maggior parte dei contratti a tempo determinato ha una durata compresa tra uno e sei mesi, e meno del 10% di essi ha una durata superiore ai 12 mesi (Figura 2). La diffusione dei contratti a termine si accompagna quindi ad una minore stabilità occupazionale, con lavoratori spesso costretti a transitare in diverse imprese prima di trovare un’occupazione stabile, potenzialmente trascorrendo del tempo nella disoccupazione tra un contratto a termine e quello successivo.
Figura 2. Durata dei contratti a tempo determinato
Fonte: elaborazioni proprie su dati Cico.
Precarietà e incertezza sui salari
La precarietà sul fronte occupazionale si accompagna ad incertezza e instabilità reddituale, con importanti ripercussioni, potenzialmente, sulle scelte di consumo e risparmio dei lavoratori. Un recente studio sul caso Italiano mostra la diversa possibilità che lavoratori impiegati con contratti stabili e con contratti a termine hanno di fare previsioni sull’andamento del loro reddito, tra trimestri consecutivi.
In particolare, la capacità di fare previsioni sul proprio reddito futuro viene misurata mediante un coefficiente di variazione (o di rischio), il quale cattura la deviazione percentuale di reddito attesa tra trimestri consecutivi. Per esempio, un lavoratore con un reddito atteso di 1000euro e con un coefficiente di variazione di 0,1, durante il trimestre successivo registrerà in media delle variazioni di reddito inattese, positive o negative, di circa 100euro.
Figura 3. Coefficiente di rischio sul reddito
Fonte: elaborazioni proprie su dati Inps.
La Figura 3 riporta questa misura di rischio stimata tra il periodo 2006-2019, per diverse fasce della popolazione, individuate in base ai decili della distribuzione della misura di rischio nella popolazione. Per esempio, il gruppo P10 denota i lavoratori nel primo decile della misura di incertezza sul reddito – coloro i quali, in altre parole, soffrono di poca incertezza reddituale. Il gruppo P90 denota invece il 10 percento dei lavoratori con il più alto grado di incertezza sul proprio reddito. Dalla figura emerge come la maggior parte dei lavoratori Italiani soffra poca incertezza di breve periodo sul proprio reddito. Per circa il 70 percento dei lavoratori, le variazioni di reddito inattese sono in media sotto il 10 percento del proprio reddito medio. Al contrario, una piccola fascia della popolazione soffre di un alto grado di incertezza.
La figura 4 riporta quindi il coefficiente di rischio distinguendo tra lavoratori occupati con contratti stabili e con contratti a tempo determinato. Dal grafico emerge chiaramente come i lavoratori impiegati con contratti a tempo indeterminato soffrano poca incertezza sul proprio reddito, con variazioni medie tra trimestri consecutivi vicine allo zero. Al contrario, per i lavoratori a termine il coefficiente di rischio risulta più alto di circa dieci volte rispetto a coloro impiegati con contratti stabili.
Figura 4. Coefficiente di rischio, per tipologia contrattuale
Fonte: elaborazioni proprie su dati Inps.
Riprendendo l’esempio precedente di un lavoratore con un reddito atteso di 1000euro, nel caso di un contratto a tempo indeterminato, durante il trimestre successivo il lavoratore registrerà in media delle variazioni di reddito, positive o negative, di circa 40euro. Nel caso di un lavoratore a termine, invece, le variazioni medie inattese sono di circa 350euro.
Una delle conseguenze di un’ampia diffusione dei contratti a termine, spesso poco enfatizzata nel dibattito pubblico, è quindi quella di limitare la capacità di fare previsioni sul proprio reddito futuro, nel breve periodo, per una larga percentuale di lavoratori. Questa scarsa capacità di previsione limita così le opportunità di pianificare decisioni di consumo e di investimento nel tempo.
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