La guerra in Ucraina, le tensioni attorno a Taiwan, i distinguo (con gaffe) di Macron. E un minimo comun denominatore: la Cina. Tutto o comunque tanto sembra girare attorno a Pechino, alle mosse di Xi Jinping. Anche alla luce della doppia visita in Cina del presidente francese Emmanuel Macron e della numero uno della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Ecco perché Giuseppe Gabusi, docente di economia politica internazionale e dell'Asia orientale all'università di Torino, direttore della rivista Rise e del programma "Asia prospects" e curatore del volume "L'Asia al centro del cambiamento" per la Treccani, può essere l'interlocutore giusto per fare un punto su quel che succede in particolare a Oriente.

Gabusi, tra l'altro, giovedì 20, al'Unione industriali di Torino sarà tra i protagonisti dell'incontro che prende lo spunto dall'ultimo libro di Giorgio Arfaras "Le regole del caos" per riflettere sul disordine economico del momento (cliccando qui tutti i dettagli). Insieme con l'autore ci sarà anche Giuseppe Russo, economista e direttore del Centro Einaudi.

Professore, Macron ha sbagliato a dire che gli europei debbono chiedersi se sia nell’interesse dell’Europa accettare le consegne altrui (leggi Stati Uniti) su Taiwan?

«Terrei distinti i due aspetti, Taiwan e il rapporto con gli Stati Uniti. Su Taiwan, non mi risulta che esistano differenze di posizione formale tra Washington e l’Europa: tutti concordano sul principio di “una sola Cina”, ritengono che la questione vada risolta per via pacifica, e intrattengono rapporti economici con l’isola, ospitando nelle proprie capitali uffici commerciali di rappresentanza che, se nominati diversamente, possono creare problemi con Pechino (vedi alla voce: Lituania). Ciò detto, l’idea macroniana dell’autonomia strategica europea è da tempo in circolazione, e si inserisce in una certa tradizione francese di non condivisione di tutte le scelte dell’alleato americano (si pensi alla “politica della sedia vuota” in ambito Nato, o al mancato sostegno nella seconda Guerra del Golfo). Calato nel contesto delle tensioni sullo Stretto di Taiwan, Macron voleva forse dire che l’Europa non si sente obbligata a difendere Taiwan, qualora Pechino attaccasse. Formulato nel pieno delle nuove esercitazioni militari che simulano un blocco totale dell’isola, questo commento si è tradotto in una gaffe diplomatica che ha mobilitato – a suon di smentite e distinguo – le cancellerie occidentali. L’Europa in generale sembra avere un atteggiamento più equilibrato e meno istintivo, ma non può ritenere che la questione di Taiwan non la riguardi: quest’area infatti, se la situazione sfugge di mano, potrebbe essere il punto di innesco di una guerra mondiale. E mi meraviglia che Macron sostenga l’estraneità del quadrante alla sicurezza europea: proprio la Francia, infatti, dovrebbe preoccuparsi più di altri, visto che Parigi ama sottolineare di essere l’unico “resident power” tra gli stati membri dell’Unione, grazie ai territori d’oltremare della Nuova Caledonia e della Polinesia francese».

 

Lei da esperto di cose asiatiche ritiene che Macron – a parte gli importanti contratti per le aziende francesi – abbia ottenuto qualche risultato sul fronte della pace in Ucraina da Xi Jinping?

«Non può ottenere nulla, finché Xi Jinping tiene il punto sull’Ucraina per resistere alle pressioni e sanzioni economiche di Washington che mirano al contenimento della Cina. Persino il modesto risultato atteso – la promessa di una telefonata a Volodymyr Zelens’kyi – è stato annacquato dall’inciso “quando sarà il momento opportuno”. Molto pragmaticamente, Pechino ritiene che né Kyiv né Mosca siano pronte per la pace, e quindi pensa che la situazione sul campo sarà determinante per stabilire le condizioni che porteranno alla tregua».

A quale ruolo punta secondo lei Pechino nella guerra della Russia all’Ucraina?

«Al ruolo di capofila di una serie di Paesi del “Sud Globale” (inclusa, a questo punto, la Russia) che, pur essendo imbarazzati dalla cruda violazione del principio di integrità territoriale e dalla realtà di una guerra di annessione che appartiene a epoche passate, non vogliono essere coinvolti in un conflitto coloniale tutto interno all’Europa. Anche in questo caso la storia conta: quando gli indiani pensano a Londra, probabilmente ricordano i soldati inglesi che spararono sulla folla ad Amritsar nel 1919, più di quanto pensino ai diritti proclamati nella Magna Charta. Con la scelta di avvicinarsi a Mosca, Pechino segnala che un altro ordine mondiale, non basato sull’egemonia americana e dell’Occidente, è possibile: un ordine, ovviamente, che rispetti le specificità dei singoli stati, incluso naturalmente il monopolio del potere del Partito Comunista Cinese nella Repubblica Popolare, e un diverso modo di concepire i rapporti tra stato e individuo, tra istituzioni e comunità».

 

Un soldato ucraino (immagine tratta dalla rivista Il Mulino)

Crede che la Cina oserà oltrepassare la linea rossa di Washington, cioè la fornitura di armi a Mosca?

«Ufficialmente, credo di no. Il problema è che, grazie anche alle catene globali del valore, esistono mille modi per gli operatori privati di aggirare confini, sanzioni, veti governativi, e di fare affari. L’industria delle armi è più che mai fiorente, e non sarei sorpreso di trovare – anche grazie a impensabili triangolazioni – tracce di tecnologia “dual use” cinese – o di qualsiasi altra provenienza – tra le file sia ucraine sia russe».

La presidente della commissione europea von der Leyen durante la visita a Pechino si è fatta interprete di una linea  più articolata rispetto agli Stati Uniti sulla Cina. Ha voluto insomma tenere una porta aperta?

«Dal 2019, come ormai noto, l’Ue definisce ufficialmente la Cina un partner negoziale, un concorrente economico e un partner strategico. Si tratta, in effetti, di una posizione più articolata rispetto all’ossessione anti-cinese che caratterizza l’intero spettro della politica americana, ma è anche vero che non è facile per l’Europa trovare un equilibrio tra posizioni antitetiche. La linea europea oggi è più ferma e franca, e sembra prendere atto della realtà: la Presidente della Commissione ha infatti ricordato di recente che l’accordo sugli investimenti firmato con la Cina dovrà essere ripensato e rivisto, perché nella situazione attuale il Parlamento europeo non ratificherà un trattato di libero scambio con un Paese che adotta sanzioni contro i propri membri».

Proprio von der Leyen ha detto che il decoupling non è nell’interesse di Bruxelles, ma sarà questo il nuovo campo di battaglia tra Cina e Stati Uniti?

«Non credo a un disaccoppiamento dell’economia globale in due blocchi totalmente distinti, perché la Cina è parte integrante dell’economia mondiale ed estrometterla significherebbe farsi del male, come sanno appunto gli imprenditori tedeschi e francesi che hanno accompagnato Scholz e Macron nei loro rispettivi viaggi di stato a Pechino. Tuttavia, la guerra tecnologica in atto sui microprocessori, vista l’importanza di questi ultimi nella produzione di un’infinità di beni, dagli smartphones alle automobili, potrebbe portare a qualche forma di frattura nell’economia globale, soprattutto (ma non solo) nei settori a tecnologia avanzata, dall’intelligenza artificiale al settore biomedicale.  Il problema di fondo, però, come ricordò il settimanale britannico “The Economist” a suo tempo, è il seguente: è possibile un commercio senza fiducia? O dobbiamo commerciare solo con gli alleati? O solo con le democrazie?»

E vede il rischio che Europa e Stati Uniti diventino digitalmente dipendenti dalla Cina di Xi?

«Direi piuttosto che siamo tutti dipendenti da Taiwan: le aziende taiwanesi producono il 60% dei chip mondiali, e addirittura il 90% di quelli più avanzati. Più seriamente, dal momento che il sistema retto dal partito-stato cinese può permettersi forme di controllo della rete inimmaginabili per l’opinione pubblica occidentale, credo che Europa e Stati Uniti abbiano già preso contromisure, e la stessa von der Leyen ha espresso la necessità per l’Ue di rafforzare la propria capacità innovativa in questi settori>>.

I maggiori produttori di semiconduttori al mondo
I maggiori produttori di semiconduttori al mondo

Sbaglia l’Occidente  a non voler riconoscere un nuovo status alla Cina nell’economia globale?

«Mi sembra che l’Occidente da anni abbia riconosciuto un certo status alla Cina nell’economia globale: molti dirigenti delle aziende globali – a cominciare dai colossi tedeschi delle auto, a cui il tessuto produttivo italiano fornisce componentistica – sanno come oggi non si possa prescindere dal mercato cinese. Il problema è il riconoscimento di un nuovo status politico, che l’Occidente non è disposto a concedere facilmente a un Paese non democratico, estraneo alla cultura liberale su cui si è retto l’ordine internazionale almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per questo gli Stati Uniti mirano a volere mantenere esplicitamente una “soverchiante superiorità” rispetto alla Cina. Quanto questa operazione sia fattibile – e a quali costi – nella situazione attuale è tutto da verificare».