Ridurre i tempi della giustizia penale del 25% entro il 2026. E’ questo uno degli obiettivi del Pnrr al quale dà riposta la Riforma Cartabia entrata in vigore il 30 dicembre, a fronte di una situazione per la quale, a inizio 2020, servivano circa 2.000 giorni dalle indagini preliminari alla sentenza di Cassazione. Si tratta di oltre 5 anni, la metà dei quali passano di fronte alla Corte d’appello. Ed erano tre i distretti in cui i procedimenti penali nei tre gradi di giudizio durano in media più di duemila giorni: Reggio Calabria, Napoli e Roma, che arriva a 2.241 giorni, più di sei anni. In Italia, a fine 2021, erano in corso 2.540.674 cause penali e, secondo i dati del ministero della Giustizia, il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini.
La condanna della Corte europea per i diritti dell'Uomo
La Riforma Cartabia sarebbe dovuta entrare in vigore il 1° novembre 2022, ma era stata rinviata con un controverso decreto-legge approvato il giorno prima. La legge, prevista all’interno del Pnrr, punta a ridurre la durata media dei processi penali entro il 2026 in quanto la lentezza dei processi, agli occhi degli osservatori internazionali, è il principale problema che affligge la giustizia italiana. Con pesanti ripercussioni sia sulla società civile sia sull’economia. Bastano pochi dati per capire perché: l’Italia è al primo posto per numero di condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per irragionevole durata dei processi (1.230, dal 1959; al secondo posto, doppiata, la Turchia, con 609 condanne), nonché per durata media del processo penale in appello: 1.167 giorni (tre anni e due mesi), contro una media europea di 121 giorni (quattro mesi). In Italia – secondo i dati della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (Cepej) che calcola il disposition time, cioè i tempi della procedura - gli appelli penali durano cioè dieci volte più della media europea. Le cose vanno un po’ meglio nel primo grado di giudizio, che in Italia dura mediamente 498 giorni (oltre tre volte la media europea, che è di soli 149 giorni) e nel giudizio di Cassazione, che dura solo due volte la media europea (237 giorni contro 120). Del resto, come ha dichiarato il primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, “in Italia ogni 100mila abitanti vi sono 11,6 giudici, 37,1 amministrativi e 388,3 avvocati. In Germania 24,5 giudici, 65,1 amministrativi, 198,5 avvocati». Qualcosa non torna.
Per fronteggiare questa emergenza, il Governo Draghi ha varato una riforma del processo penale, la più ampia e trasversale di quelle pur realizzate negli ultimi trent’anni. Gran parte della riforma è entrata in vigore solo da pochi giorni. Da oltre un anno, invece, è in vigore la parte che è intervenuta sulla prescrizione del reato. Nella passata legislatura quella parte della riforma fu anticipata perché ritenuta urgente: si trattava di correggere la Riforma Bonafede del 2019, che con il pur lodevole intento di ridurre l’incidenza della prescrizione del reato in appello (pari al 25%) aveva stabilito il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, senza però considerare gli effetti di prevedibile allungamento dei tempi nei successivi gradi di giudizio, venuto meno il timore della prescrizione e, quindi, l’impulso a fare presto per non mandare in fumo i processi. Per questo il Governo Draghi, nel nuovo contesto del Pnrr, ha apportato a quella riforma un correttivo impedendo l’irragionevole durata dei giudizi di secondo e terzo grado. Quanto alle prescrizioni dichiarate nel 2020 (il 62% dei processi non arriva alla fine proprio perché incappa nella prescrizione), il 37,1% sono intervenute nella fase delle indagini preliminari, il 35,8% durante il primo grado, il 25,1% in appello e appena lo 0,5% in Cassazione.
La nuova prescrizione firmata Cartabia
La soluzione individuata dalla Riforma Cartabia è stata quella di mantenere la prescrizione in primo grado prevedendo però la improcedibilità per superamento di termini di durata massima individuata in due anni, per l’appello, e in un anno, per la Cassazione (salva la previsione di un sistema di eccezioni, di proroghe e sospensioni dei termini). Ma se la prescrizione era una sorta di cerino che passava di mano, l’improcedibilità è un cerino che brucia tutto in mano ai giudici di appello o di Cassazione. È un meccanismo che responsabilizza i magistrati, chiamati dal Pnrr a una sfida importante ma i cui effetti sono già misurabili: nel primo semestre del 2022 il disposition time è diminuito di circa il 15% in appello e in Cassazione. Gli uffici giudiziari, si sono riorganizzati, anche grazie all’apporto di migliaia di giovani addetti all’ufficio per il processo, assunti con fondi Pnrr. Una volta superati i termini previsti, scatterà l’improcedibilità e l’imputato non potrà più essere condannato.
L’udienza “filtro” può stoppare l'iter
Ma non è la prescrizione l’unico tassello della Riforma, anzi. Un ulteriore elemento chiave è quello che assegna al giudice per le indagini preliminari (Gip) la possibilità di esercitare maggiore controllo sul pubblico ministero (Pm), in particolare sui tempi di iscrizione della notizia di reato. Ad accelerare l’iter processuale è anche l’istituzione della nuova udienza predibattimentale, cosiddetta ‘udienza filtro’, attraverso la quale è possibile pronunciare in anticipo la sentenza di non luogo a procedere «quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna». Udienza filtro, perché il giudice dovrà “filtrare” le citazioni dirette che ha formulato il pubblico ministero, per stabilire se celebrare o meno il dibattimento. Il giudice è quindi chiamato a valutare se esistono le condizioni per pronunciare “sentenza di non luogo a procedere”, a partire dagli elementi acquisiti, che in questo caso non consentono di prevedere una condanna.
Pm/gip, Nuovi rapporti tra toghe
Quindi, cambia il rapporto tra Pm e Gip. Il giudice avrà un maggior potere di controllo sul Pm e, ad esempio, verificherà i tempi dell'iscrizione di una notizia di reato e potrà costringere il Pm a retrodatarla, a vantaggio dell'indagato. Una volta scaduti i 6-18 mesi concessi per indagare a seconda della gravità del reato, il Pm dovrà archiviare o procedere al rinvio a giudizio. Ma soprattutto potrà farlo se è già in grado di prevedere che le prove in suo possesso consentono "una ragionevole previsione di condanna"; diversamente, dovrà archiviare, mentre prima della Riforma era sufficiente poter contare su elementi "idonei a sostenere l'accusa in giudizio". Comunque, scaduti i suoi termini di indagine, se il pm resta inerte, dovrà procedere alla discovery degli atti. Saranno il gip o il procuratore generale ad affrontare l'inerzia o a concedere più tempo.
Meno spazio alla querela
Un altro provvedimento importante riguarda il restringimento della platea di reati procedibili d’ufficio a favore di quelli procedibili a querela. Rientrano ora in questa fattispecie furto, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, violazione di domicilio, lesioni lievi, lesioni personali colpose stradali gravi o gravissime, lesioni personali dolose, molestie, violenza privata, danneggiamento e sequestro di persona non aggravato. In tutti questi casi, se la vittima non presenta richiesta formale, il reato non viene perseguito.
Pene sostitutive al carcere
La Riforma prevede inoltre pene sostitutive al carcere per condanne entro i 4 anni. Nello specifico è possibile scegliere tra pena pecuniaria per condanne fino a un anno, lavoro di pubblica utilità fino a tre anni e detenzione domiciliare o semilibertà fino a quattro anni. Se invece il reato commesso è "tenue", vale a dire punito dalla legge fino a due anni - a patto che non abbia a che fare con violenza sulle donne, stupefacenti o reati contro la Pa - potrà essere archiviato. Qualora il Pm non dovesse farlo, potrà essere il giudice ad applicare la "tenuità del fatto", tenendo anche conto del comportamento successivo al reato, come aver soccorso subito la propria vittima.
La riparazione del reato
Chi ha commesso un reato può "ripararlo". Un altro filone della Riforma è quello della riparazione del danno, che prevede la mediazione tra l’autore del reato e la vittima «secondo la logica della riconciliazione e ricomposizione del conflitto che le è propria». Nello specifico si intende, per giustizia riparativa, «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato», con l’aiuto di un mediatore. La riparazione può essere simbolica – dichiarazioni o scuse formali, impegni «anche pubblici o rivolti alla comunità» – o materiale: riparazione del danno, restituzioni ma anche «l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori».
La citazione diretta, carta per i pm
La Riforma Cartabia prevede anche l’ampliamento della lista di reati nei quali il Pm, da solo, può procedere con una citazione diretta. I reati meno gravi, sono riservati al rito monocratico a citazione diretta: si tratta di quei reati con un massino di reclusione di quattro anni, oppure puniti con una multa, e i riti individuati puntualmente come i furti aggravati o le lesioni. In queste circostanze, il processo è appunto instaurato senza che sia preceduta una richiesta di rinvio a giudizio da parte del Pm, con la fissazione dell’udienza preliminare. Di conseguenza, andranno a diminuire i reati per cui è necessaria l’udienza preliminare.
Indagini preliminari più brevi
Anche le indagini preliminari sono oggetto della Riforma. Le indagini non potranno durare più di sei mesi, in caso di reati ordinari, e di un anno quando si tratta di reati gravi. La proroga per entrambe le tipologie di reato, è fino ai diciotto mesi per i primi, e ventiquattro per i reati gravi. Obiettivo della Riforma penale è proprio quella di favorire l’archiviazione di tutti i reati che non consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Il discovery degli atti, ossia il meccanismo che prevede lo sforamento dei limiti massimi della durata delle investigazioni da parte del Pm e che porta all’indagato e al suo avvocato l’accesso ai dati, si avrà subito a scadenza del termine massimo delle indagini.
La digitalizzazione per accelerare
La digitalizzazione ha poi un ruolo chiave nella revisione del processo penale: l’obiettivo di introdurla è quello di sveltire dal punto di vista burocratico le pratiche penali, adottando, come già accade nel processo civile, strumenti telematici. Molti atti del processo penale diventeranno quindi telematici: un approccio di questo tipo consentirà infatti un risparmio in termini di tempo e denaro.
I procedimenti speciali
Maggior rilievo anche ai procedimenti speciali nel processo penale. Patteggiamento, messa alla prova, rito abbreviato: questi strumenti di definizione, alternativi ad un processo classico, sono favoriti dalla Riforma della giustizia Cartabia: lo scopo è quello di alleggerire la quantità di processi. In merito al giudizio abbreviato, la riforma prevede che la pena inflitta si riduca di un sesto nel caso in cui mancasse la proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Anche la messa alla prova cambia in termini di tempistica: la sua applicazione sarà estesa anche ai reati puniti con pena non superiore ai sei anni, al contrario dei quattro attuali. Sul patteggiamento invece, la Riforma prevede che, nella circostanza in cui la pena detentiva da applicare superi i due anni (patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e Pm può estendersi alle pene accessorie e alla loro durata. La Riforma della giustizia Cartabia mette poi in campo una serie di pene sostitutive, come la detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria per abbattere il problema del sovraffollamento delle carceri. Le modalità di pena indicate fungeranno da alternativa alle classiche pene di detenzione: tra queste, anche il lavoro di pubblica utilità. Infine, il diritto all’oblio, ossia il diritto di essere dimenticati sarà garantito a tutte le persone indagate o imputate, assolte dal processo penale, attuato mediante la deindicizzazione delle notizie sul procedimento penale che è stato a loro carico.
I dubbi di giuristi e penalisti
Alla fine una domanda è d’obbligo. Servirà tutto ciò? Ne valeva la pena? “Ad essere sinceri – spiega il penalista Alessandro Traversi del foro di Firenze – la Riforma è frutto del fatto che qualcosa si doveva fare per poter avere i fondi del Pnrr. E qualcosa si è fatto. Che serva realmente ad abbattere i tempi del processo penale dubito molto. Anche perché il 90% dei reati diventerà a citazione diretta e qui viene introdotta una nuova udienza, quella predibattimentale che non esisteva. Strano modo di semplificare quello di introdurre una nuova udienza! Per non dire della difficoltà, specie per i tribunali di minore dimensione, a reperire giudici per questa nuova udienza, visto che si deve trattare di un giudice diverso da quello che sarà poi il giudice del dibattimento. E poi la Riforma fa cadere il principio della oralità del giudizio in appello e Cassazione. Il processo di norma sarà in Camera di consiglio e solo per tabulas: è vero che l’oralità può essere richiesta, ma tutto ciò è contro i principi fondamentali del processo penale”.
E non mancano le critiche di fondo. “Certo, continuiamo a ritenere che alla base forse non di tutto, ma certo di molto, vi sia un sistema che soffre di una eccessiva criminalizzazione e ne soffre terribilmente. Insieme alle novità introdotte, quindi, la cura più efficace rispetto al male che ha reso agonizzante il processo penale – scrivono i giuristi Simone Lonati Carlo Melzi d’Eril su Lavoce.info - sia quella di una severa depenalizzazione. Questo stato di cose, che ha radici lontanissime e trova una delle cause nello sciagurato – ma mai sufficientemente vituperato – uso “simbolico” del diritto penale, trovava anni fa una periodica panacea con amnistie e indulti, nonché con la prescrizione. In un recente intervento pubblico, a proposito della Riforma il ministro Cartabia ha precisato che lei e il governo di cui fa parte non cercano il consenso a tutti i costi e che in questa materia “occorre uno sguardo lungo e sottoporsi al tribunale della Storia”. Non osiamo anticipare un simile autorevole “verdetto”, ma avanziamo l’ipotesi che l’assoluzione “piena” sarebbe stata certa se l’esecutivo si fosse spinto fino a estirpare la “mala pianta”, dalle radici”.
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