Dal 6 al 9 giugno del 2024 gli elettori dei 27 paesi membri dell’UE saranno chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento europeo, cui seguirà l’elezione del nuovo (o nuova) presidente del Parlamento (oggi, la maltese Roberta Metsola) e, nell’autunno, la scelta del nuovo (o nuova) presidente della Commissione (oggi la tedesca Ursula von der Leyen), dei nuovi commissari (uno per paese), del presidente del Consiglio Europeo dei capi di stato e di governo (oggi, il belga Charles Michel), nonché dell’Alto rappresentante per gli affari esteri (oggi, lo spagnolo Josep Borrell).
Il pacchetto di nomine dovrà tenere conto di equilibri fra Stati e fra regioni dell’Unione (paesi nordici, paesi mediterranei e paesi dell’est; paesi grandi e paesi piccoli), ma anche degli equilibri politici post-elezioni (il Presidente della Commissione è scelto dai capi di governo ma deve essere votato dalla maggioranza in parlamento, pari a 353 seggi).
In passato, l’affluenza al voto è stata piuttosto bassa: dal 2004, ossia dopo l’allargamento e la precisazione di una serie di regole elettorali comuni (in particolare, la proporzionalità della rappresentanza), ha oscillato fra il 42 e il 45 per cento, per poi salire, nel 2019, al 50,7. In passato, anche, le elezioni europee sono state spesso la scena di exploit temporanei a livello nazionale. Per citarne qualcuno, nel 2014 lo UKIP (il partito di Nigel Farage, e di Brexit) fu il più votato nel Regno Unito, con il 27 per cento; nel 2014 e nel 2019 il Front National di Marine Le Pen vinse le elezioni in Francia con il 24 per cento; in Italia, nel 2014 il Pd di Matteo Renzi superò il 40 per cento e nel 2019 la Lega toccò il 34 per cento (oggi, c’è chi teme che qualcosa del genere possa accadere in Germania a beneficio del partito euroscettico di estrema destra AfD).
Dal 2019 a oggi, però, l’Unione Europea è “cresciuta”: la reazione all’epidemia di Covid-19, con l’acquisto in comune dei vaccini e il Recovery Fund, lo European Green Deal del 2020, la coesione nella risposta alla guerra in Ucraina hanno reso l’Europa “più Europa”, nel bene e nel male, anche nella percezione dei suoi cittadini. È questo, probabilmente, a spiegare una – cauta – previsione di aumento della partecipazione nel 2024, registrata in un sondaggio Eurobarometro del marzo scorso: alla domanda “se le elezioni si tenessero la settimana prossima, andresti a votare?”, il 67 per cento degli europei ha risposto di sì; nel marzo 2018, a una domanda simile aveva risposto sì solo il 58 per cento (la partecipazione effettiva, come abbiamo visto, fu del 50,7 per cento, ossia di 7 punti inferiore).
La prima sorpresa, dunque, potrebbe essere una ulteriore crescita della partecipazione al voto. Sullo sfondo, però, di una situazione variegata quanto a sentimento di cittadinanza europea, come mostra la figura che segue.
Non tutti si sentono cittadini d’Europa
(risposte alla domanda “senti di essere un cittadino europeo?”, val. %; - Fonte: Eurobarometro 99, primavera 2023)
Fra gli elettori dei grandi paesi fondatori, non si sentono cittadini dell’Unione poco meno di un quarto dei tedeschi (23 per cento), due francesi su 5 (41 per cento), un italiano su tre (33 per cento; Italia, Grecia e Bulgaria, con il 18 per cento, sono anche in coda alla classifica dei “sì” convinti). In totale, oltre un quarto (27 per cento) degli intervistati non si sente “cittadino d’Europa”: una percentuale che, verosimilmente, si distribuirà fra astensione e voto “euroscettico”, due scelte con effetti molto diversi sul risultato finale.
Quali problemi preoccupano oggi gli elettori che la prossima primavera saranno chiamati alle urne?
- Nel giugno scorso, a livello personale risultavano largamente prevalenti le preoccupazioni di ordine economico, legate all’aumento del costo della vita e all’inflazione (56 per cento in media UE)
- A livello nazionale, del paese in cui l’intervistato vive, l’inflazione resta al primo posto, ma con il 45 per cento delle indicazioni
- A livello comunitario, l’inflazione scende al 26 per cento; seguono più o meno a pari merito l’immigrazione (25 per cento), la situazione internazionale (24 per cento) e il cambiamento climatico (23 per cento)
- A livello globale, al primo posto con il 20 per cento ci sono fame e povertà, al secondo con il 19 per cento le guerre e in genere i conflitti armati, al terzo (17 per cento) il cambiamento climatico.
Della questione immigrazione, e dell’uso pessimo che ne fa la politica, abbiamo scritto; e così del cambiamento climatico, e delle resistenze che cominciano a suscitare le misure volte a contrastarlo. Quanto al tema dei conflitti armati, all’Ucraina si è aggiunta purtroppo da un mese e mezzo la guerra fra Israele e Hamas: qui l’opinione pubblica è divisa in tutta Europa, più ancora che sull’Ucraina, e i governi fanno fatica a trovare un allineamento fra loro, nonché, a livello nazionale, con i propri cittadini. I quali, a loro volta, sul tema vorrebbero essere ascoltati di più.
Quanto, secondo gli europei, il proprio governo li ascolta su temi di politica estera
(risposte alla domanda “Secondo lei, al momento di prendere decisioni di politica estera, in che misura il suo governo ascolta l’opinione pubblica?”, val. % medi per undici paesi europei - Fonte ECFR.eu)
I dati provengono da un sondaggio commissionato dallo European Council for Foreign Relations nella primavera scorsa per una ricerca, suggestivamente intitolata Vicini all’America, disillusi sulla Russia, a distanza dalla Cina, che dimostra quanta strada gli europei abbiano ancora da fare per adattarsi a un mondo radicalmente cambiato. E la guerra in Israele ha il potenziale per rimescolare ancora le carte.
Come si tradurrà in voti questo subbuglio, il prossimo giugno? Guardiamo che cosa dicono oggi i sondaggi, sapendo che sono destinati a cambiare ancora, e parecchio, a misura che si avvicinano le elezioni e le persone si chiariscono le idee sulle scelte di voto.
Verso una sconfitta dei partiti “storici” alle elezioni europee?
(proiezione in seggi dei risultati elettorali; media ponderata dei sondaggi 2021-2023 - Fonte: Politico.eu, Poll of Polls)
- Ad oggi, in sintesi, i partiti “storici” perderebbero complessivamente 36 seggi: 18 i popolari (EPP, da 187 a 169), 8 i socialisti (S&D, da 148 a 140), 10 i liberal-macroniani (RE, da 97 a 87): sulla carta 403 voti, che però nel Parlamento europeo non bastano, visto che ci sono spesso defezioni dal voto di gruppo per ragioni di natura nazionale (l’elezione di von der Leyen, per esempio, fu dovuta fra l’altro al voto dei 5Stelle, mentre un centinaio di parlamentari socialisti non la votarono)
- 21 seggi li perderebbero i verdi (Greens/EFA, da 68 a 47) e 2 la sinistra (Left-GUENGL/GL, da 40 a 38)
- I conservatori di Giorgia Meloni (ECR) acquisirebbero 18 seggi, passando da 62 a 80; la destra estrema di Salvini, Le Pen e AfD (ID) guadagnerebbe 2 seggi (da 76 a 78)
- 81 seggi, a confronto dei 27 attuali, andrebbero a partiti nuovi e/o non affiliati a un gruppo esistente, certificando una crescente frammentazione.
Storicamente, la costruzione europea si è retta su due assi portanti: sul piano politico, la collaborazione fra popolari, socialisti e, in minor misura, liberali; sul piano interstatuale, la relazione fra Francia e Germania.
Se fosse confermata la sconfitta simultanea dei tre partiti “storici”, la seconda sorpresa delle elezioni di giugno potrebbe dunque essere la necessità di cercare, nella gestione delle istituzioni europee, equilibri politici diversi dal passato.
La terza, infine, potrebbe essere il netto indebolimento dell’asse franco-tedesco: destinato a pesare meno se, come è più che possibile, tanto il cancelliere tedesco Olaf Scholz quanto il presidente francese Emmanuel Macron, entrambi in profonda crisi di consenso (quello per Macron è oggi al 29 per cento, quello per la coalizione di governo tedesca al 35), usciranno dalle urne con le ossa rotte.
Come si vede, si prospetta un puzzle complicato da ricomporre. Tanto più difficile, poi, quanto più da adesso a giugno la scadenza elettorale verrà utilizzata dalle forze politiche soprattutto in chiave di affermazione nazionale. L’Europa e i suoi cittadini, invece, avrebbero bisogno di chiarirsi le idee seriamente sul futuro dell’Unione: in termini di dimensioni (allargamento, sì o no e quando), di regole di funzionamento (unanimità quasi sempre, regge?), di politiche di bilancio, di rapporti con il resto del mondo (le guerre, ma anche l’immigrazione), di eventuale ampliamento delle competenze (e dunque del bilancio) comunitario. C’è da augurarsi che l’occasione non vada (del tutto) persa.
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