Il cambiamento climatico, i rischi connessi, gli strumenti per affrontarlo, rappresentano una costante del discorso pubblico. A livello individuale, invece, alimentano correnti sotterranee di ansia diffusa. I negazionisti sono pochi, almeno in Europa. A parole, quasi tutti – politici e cittadini – riconoscono che si tratta di un fenomeno reale, rispetto al quale occorre adottare scelte collettive di mitigazione e di adattamento. Nella pratica, le decisioni si rivelano complicate, nel momento in cui toccano abitudini, stili di vita e prospettive di lavoro di larghe fasce della popolazione.

Negli Stati Uniti è in corso da oltre un mese uno sciopero per migliorare le condizioni di lavoro negli impianti dei produttori “storici” di autoveicoli (Ford, General Motors e Stellantis). Il Presidente Biden, con un gesto senza precedenti, è andato a portare solidarietà ai picchetti, ma è anche il promotore di un gigantesco piano di investimenti sulla transizione all’elettrico, che mette a rischio esattamente i lavoratori di quelle fabbriche e in realtà è uno dei motivi dello sciopero.

È pieno il mondo di queste contraddizioni: nel Regno Unito, per dirne una, il governo conservatore di Rishi Sunak è in estrema difficoltà, staccato di 20 punti nei sondaggi rispetto al partito laburista soprattutto per le sciagurate conseguenze economiche della Brexit, e ha regolarmente perso le elezioni suppletive: tutte tranne una, a luglio, in un seggio dell’area metropolitana di Londra, a cui il sindaco Sadiq Kahn vuole estendere un regolamento molto rigido in tema di emissioni (Ulez, ultra low emission zone). In settembre, Sunak ha annunziato la decisione di rivedere tutti i target e gli impegni del piano nazionale “net zero”.  

Analogamente, a spingere la crescita del partito di estrema destra tedesca Alternative für Deutschland (AfD, oggi intorno al 20 per cento nei sondaggi nazionali e secondo partito dopo i popolari, avendo ampiamente staccato i socialdemocratici) è stata, nella scorsa primavera, la decisione del governo Scholz di vietare, a partire dall’anno prossimo, l’installazione delle caldaie a gas, da sostituire con le assai meno inquinanti ma molto più costose pompe di calore. Il governo ha poi fatto in settembre una non brillante marcia indietro, allungando di quattro anni la scadenza, ma il danno era fatto.
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Le contraddizioni dell’opinione pubblica europea sono perfettamente visibili nel sondaggio Eurobarometro dello scorso giugno dedicato, appunto, al cambiamento climatico; e questo benché le domande siano tutto sommato blande ed evitino di porre alternative troppo nette e sgradevoli. Le due mappe che vedete sono significative. La prima classifica i paesi europei sulla base della quota di rispondenti che indicano il cambiamento climatico come il problema più importante che il mondo deve affrontare (su un elenco di 11 il clima è al terzo posto in media europea, preceduto da fame e povertà e dalle guerre); la seconda li classifica invece sulla base della quota di coloro che se ne sentono personalmente minacciati.

 

Il problema
Il problema
Il cambiamento climatico è il problema più importante che il mondo deve affrontare (% degli intervistati che lo mettono al primo posto). Fonte: Eurobarometro

 

La minaccia
La minaccia
Il cambiamento climatico è una minaccia per me (% degli intervistati che si sentono personalmente esposti ai rischi climatici – incendi, alluvioni, inquinamento, eventi meteorologici estremi). Fonte: Eurobarommetro

Come si vede, si tratta di immagini quasi speculari: in media, più alta è la percezione del rischio collettivo, più bassa è quella del rischio personale, e viceversa. Per esempio, in Danimarca, il 35 per cento si preoccupa del rischio globale, ma solo il 18 per cento si sente minacciato a livello individuale; in Grecia, all’opposto, il 12 per cento si preoccupa del mondo, ma ben il 59 per cento ha paura per sé.

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Anche le analisi sociodemografiche mostrano la stessa contraddizione: le persone istruite e benestanti sono molto più consapevoli del problema (lo mettono al primo posto il 28 e il 23 per cento degli appartenenti alle classi medie e medio-alta), ma anche più fiduciose di poterlo affrontare (rispettivamente il 30 e il 32 per cento si sentono personalmente esposte al rischio); i più poveri lo vedono assai meno incombente (al primo posto per il 15 per cento degli appartenenti alla classe medio-bassa e il 12 per la classe operaia) ma lo temono di più (si sentono esposti al rischio il 37 e il 39 per cento rispettivamente).

Per evitare che le contraddizioni esplodano con effetti imprevedibili, non basta, dunque, che la politica proponga piani ambiziosi (salvo magari rimangiarseli per ragioni elettorali): è necessario un grande lavoro di spiegazione, e soprattutto la capacità di incontrare le persone là dove sono, nel mezzo delle loro contraddizioni e delle loro comprensibilissime paure.