Acquistare tempo. La storia dell'ultimo anno del dossier Tim – va ricordato che un Memorandum of understanding per la vendita della rete dell'ex monopolista unitamente a Sparkle è datato 29 maggio – è stata tutto un prendere tempo. In realtà è possibile che senza la caduta del Governo Draghi questa volta magari si sarebbe potuti arrivare a dama.

Ma il contesto politico è invece cambiato. E con il partito della premier, Fratelli d'Italia, che durante tutta la campagna elettorale ha cannoneggiato contro il progetto di vendita della rete Tim che vedeva come pivot Cdp (e che prevedeva l'approdo dell'asset Tim all'interno di Open Fiber) è andata come politicamente era chiaro che sarebbe andata: con azioni successive per prendere tempo.

Il crocevia e il golden power

Ora, però, è la stessa politica a trovarsi a un bivio. Con una carta, importantissima, a proprio favore in realtà visto che la rete Tim è asset protetto dal cosiddetto “golden power”, vale a dire la possibilità per il Governo di bloccare un'operazione che riguardi la vendita di un asset di “rilevanza nazionale”. La rete deve essere a controllo pubblico, hanno detto esponenti del Governo. Compresa la premier Giorgia Meloni che di Tim però ha parlato solo tre volte dal suo insediamento: durante la presentazione delle linee programmatiche alle Camere; nel corso della conferenza stampa di fine anno («Confermo che questo Governo si dà l'obiettivo duplice di assumere il controllo della rete, per una questione strategica, e di lavorare per mantenere i livelli occupazionali. Tutto il resto lo lasciamo alla dinamica libera del mercato») e, qualche settimana addietro, quando si è limitata a definire quello di Tim «un dossier complesso», ma con risposte che sarebbero arrivate a breve.

Nebbia fitta sul dossier

Alla fine dei conti una grande confusione in questi ultimi due mesi ha regnato sul dossier. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alessio Butti è stato molto attivo in una prima fase, quella in cui l'offerta Cdp ha finito per cedere il passo. A seguire, se il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso ha propugnato la soluzione Cdp e il controllo pubblico della rete, il ministro Giorgetti ha lanciato messaggi sulla possibilità di accettare un controllo che ha chiamato “strategico”, cioè basato su una governance a forte tutela del socio pubblico pur detenendo questo meno del 50% del capitale.

Di qui l'apertura, o diciamo di certo la non ostilità, di Palazzo Chigi per la proposta di Kkr che prevede (come anticipato sul Sole 24 Ore dell'11 febbraio) l'entrata dello Stato in minoranza (anche con Tim nell'azionariato), con condizioni di golden power e meccanismi di governance che prevedano specifici diritti di controllo e supervisione sulle materie più critiche, anche mediante un comitato strategico con guida designata dal governo.

Il nuovo capitolo

Con il consiglio d'amministrazione Tim dello scorso 24 febbraio e l'indicazione a Kkr di rivedere l'offerta migliorandola, si chiude da una parte una prima fase aperta proprio con la presentazione dell'offerta di Kkr per la rete Tim che, neanche troppo in fondo, è stata una mossa di contropiede mentre tutti gli occhi erano puntati su un'offerta per la rete Tim alla quale era atteso il duo Cdp-Kkr.

A questo punto se ne apre però una seconda di parte: quella in cui la questione andrà messa sui binari decisi (e che ancora sono da decidere). Un incontro venerdì mattina a Palazzo Chigi ha visto seduti allo stesso tavolo Kkr e Cdp con il Governo nel ruolo di mediatore per vedere di far convergere strategie e interessi. Il risultato non sarebbe stato granché. Anzi. Kkr ha fatto capire che Cdp come compagna di viaggio non è tanto gradita perché foriera di problematiche antitrust (La Cassa è azionista al 9,8% di Tim e al 60% della concorrente Open Fiber). Ma se l'intesa non dovesse prendere corpo, a quel punto ci sarà da scegliere. E dunque? Cdp avrà il lasciapassare politico per fare una offerta?

Il caso Kkr

Va detto che l'esistenza di un'offerta da parte di Kkr non significa necessariamente un'accettazione. Certo è che una soluzione va trovata. Il piano di “delayering” che l'ad Tim Pietro Labriola ha presentato lo scorso luglio al Capital Market Day va nella direzione della separazione della rete e dai servizi con la creazione di quattro nuove entità, suddivise fra NetCo e ServiceCo. Il deleverage del debito monstre di Tim, sopra i 20 miliardi quello netto after lease, è conditio sine qua per continuare a stare sul mercato e a investire. E i tempi non sono infiniti. Anche perché, come sottolineato nei mesi scorsi dal Sole 24 Ore, Tim brucia cassa nell'ordine di 900 milioni l'anno (circa 75 milioni ogni mese).

Quindi, prima si vende, meglio è.

Ergo, difficile pensare ora ad altre prese di tempo (anche se visti i corsi e ricorsi storici mettere la mano sul fuoco di qualsiasi informazione potrebbe risultare pericoloso). Il “controllo strategico”, è stato detto, deve rimanere allo Stato. Il fondo Usa Kkr si è fatto avanti e ha aperto alla partecipazione dello Stato. Cdp è già nell'ambito statale, espressione dell'azionista Mef, ma ancora non si è potuta mettere in competizione con l'offerta Kkr.

I nodi (anche della campagna elettorale) ora inevitabilmente si avviano verso il pettine.