Dietro la denominazione Federcasse c’è il ricco pianeta delle banche di credito cooperativo, le ex casse rurali. Uno dei cuori pulsanti dell’economia italiana: 224 Bcc dal Brennero a Pachino, 4.100 sportelli, quasi un milione mezzo di soci. Un buon osservatorio per fare un check-up all’economia in questi tempi contrassegnati dalla grande incertezza. Sergio Gatti è il direttore generale di Federcasse e anche uno degli ispiratori dello slogan che ha segnato ormai diversi anni fa la comunicazione delle Bcc: la mia banca è differente.

Dottor Gatti, quali sono i fattori che concorrono di più a creare incertezza?

«Non ci sono mai state troppe certezze in economia. Ma negli ultimi 15 anni il quadro si è fatto più complicato per la concorrenza di più fattori. Dalla pandemia all’inflazione, dalla guerra in Ucraina fino all’instabilità geopolitica (che diventa guerra) in Ucraina e in Medio Oriente sono tutti elementi con cui abbiamo dovuto fare i conti negli ultimi tre anni. E che hanno rallentato l’economia europea. In più i dieci rialzi consecutivi dei tassi da parte della Bce di certo non hanno aiutato».

Giudica inappropriata la linea di Lagarde?

«Dico che si è applicata una ricetta antica per riportare l’inflazione sotto controllo. Aumentare i tassi per ridurre la corsa dei prezzi. Ma sappiamo che questa inflazione è in gran parte determinata da fattori esogeni (innalzamento dei costi dell’energia, mancanza di materie prime )e non da impennate dei consumi: così si sono rallentati gli investimenti delle famiglie e delle imprese, come dimostra la diminuzione dei mutui. Eppure gli investimenti sono più che mai indispensabili per favorire la transizione ecologica e quella digitale che stanno procedendo troppo lentamente rispetto alle necessità. Mentre di fronte a cambiamenti climatici sempre più evidenti servirebbe un altro passo».

Sergio Gatti è il direttore generale di Federcasse

Che cosa servirebbe?

«Detto che la Bce per mandato ha solo l’obiettivo del controllo dell’inflazione a differenza di quel che accade per la Fed o la Banca d’Inghilterra che hanno tra i loro compiti anche quello di garantire il mantenimento o la crescita dell’occupazione, c’è il rischio che come conseguenza delle politiche monetarie possa crescere la disoccupazione. Per questo servirebbe di un nuovo Patto che più che sulla stabilità punti allo sviluppo (che è qualcosa di più e di diverso della “crescita” che è solo quantitativa). Altrimenti torniamo alla filosofia di tre anni fa, a prima del Covid: “soluzioni vecchie per situazioni vecchie”. I meccanismi del Patto di sviluppo e stabilità …. andrebbero rivisti, a cominciare ad esempio dalla spesa sanitaria. Che andrebbe considerata alla voce investimenti più che tra le spese correnti. Altrimenti favoriremo una nuova desertificazione sanitaria, nonostante la lezione del Covid».

Che previsioni fa sull’inflazione?

«Quel due per cento che fino a pochi anni fa, visto dal basso, sembrava un livello lontano adesso appare altrettanto difficile da raggiungere al punto in cui è arrivata l’inflazione. L’indice dei prezzi ha corso troppo. Ricalibrare il target alzandolo? Forse è un’opzione da considerare. Comunque se nei prossimi mesi l’incertezza che ci avvolge sarà rimossa, e soprattutto se non dovremo fare i conti con un nuovo shock energetico, tra il 2024 e il 2025 potremo riavvicinare il 2% che persegue la Bce».

Con quali costi?

«Il rischio che si paghi un alto costo sociale è reale. Nessuna transizione è gratis … si direbbe. Il fatto che il conto non può essere pagato da chi è più in difficoltà. D’altronde l’Italia dopo quella crescita straordinaria dell’8% nel post Covid avrebbe avuto bisogno di altri tre-quattro anni di crescita sostenuta, tra il 4 e il 5%, per intenderci, per recuperare il terreno perso negli ultimi trent’anni. Invece, siamo già tornati a crescite poco superiori allo zero o all’uno per cento. E non possiamo aspettarci che risolva tutto il Pnrr. Che può aiutare alcuni grandi-medi investimenti pubblici, ma non può essere l’unico motore. Serve anche il capitale privato per gli investimenti di micro-piccole-medie imprese e famiglie».

Sono aumentate le sofferenze per il credito cooperativo?

«In realtà, i dati dal 2020 in poi ci danno in controtendenza. Crescono i crediti e diminuiscono le sofferenze. Abbiamo allargato la quota di mercato dei prestiti alle imprese, migliorato la qualità del credito e anche la solidità patrimoniale del sistema si è rafforzata. Le do qualche numero. La percentuale tra crediti deteriorati e impieghi per noi è del 3,7% rispetto al 4,5% del resto del mercato. Il rapporto tra sofferenza e impieghi per noi si ferma all’1,5% rispetto all’1,8% delle altre banche. E nel confronto tra giugno 2022 e giugno 2023 le sofferenze si sono ridotte di un terzo, un altro risultato molto buono. All’abbattimento delle sofferenze ha contribuito la conoscenza di chi ottiene il prestito, la sua affidabilità. Per le nostre banche gli artigiani o gli agricoltori o i negozianti che si presentano in filiale non sono un numero, una pratica. Sono volti noti. Storie. E se sono meritevoli siamo pronti ad aiutarli quando vanno in difficoltà. Diamo loro un’altra chance grazie a un patrimonio solido, confermato anche dai tre principali indicatori di solidità internazionali. Il Cet1 medio delle BCC è al 22,4%. L’altra carta sulla quale si è puntato è stata la cessione di una parte delle sofferenze».

Come vede il lavoro in questo momento di incertezza?

«Il lavoro è il cuore di tutte le transizioni, è la macroleva per ridurre e limitare la povertà, ridurre le disuguaglianze. Ma è anche cambiata la sua concezione. Non basta più che garantisca un reddito. Lo dimostra la crescita di un fenomeno relativamente nuovo come le grandi dimissioni, persone che lasciano volontariamente il posto di lavoro alla ricerca di un equilibrio tra vita privata e impiego che abbia un senso e una finalità nella quale identificarsi. E soprattutto ai giovani di oggi non basta solo la soddisfazione economica. Si cercano altre soddisfazioni, soprattutto – come detto – il senso del proprio lavoro, la possibilità di incidere. Il lavoro resta un elemento essenziale dell’economia. E i dati che abbiamo sull’occupazione non sono malvagi. Anzi, direi incoraggianti. Ma possono ancora migliorare. E bisogna recuperare la piena dignità del lavoro».

Si riferisce al salario minimo?

«Secondo me la via maestra resta la contrattazione tra imprese e sindacati. E’ quella la base da cui ripartire. Per questo sottolineo che bisognerebbe incentivare la sottoscrizione di contratti che garantiscano la dignità di chi lavora. Si potrebbe fissare per legge l’obiettivo di un importo minimo orario in certi settori dove il lavoro è mal pagato, ma stimolando poi il raggiungendo di un accordo tra le parti, anche innalzando eventualmente quel livello minimo. L’evasione fiscale e contributiva colpisce soprattutto i lavoratori più deboli».

Qual è la filosofia del credito cooperativo?

«Tre numeri racchiudono la filosofia normativa e operativa del credito cooperativo. Il primo è 70%. E’ la percentuale degli utili che per legge va destinata a riserva indivisibile per incrementare il patrimonio. Le Bcc vanno molto oltre, destinando in media il 90 per cento degli utili a riserva per patrimonializzare costantemente la banca. Ossigeno per l’economia delle comunità se si pensa che un euro portato a patrimonio ne genera fino a cinque di credito. E anche un approccio attento alle generazioni successive. Il secondo numero è 50,1% e indica la prevalenza verso i soci nella concessione di crediti. L’ultimo numero è 95% e stabilisce che il risparmio raccolto che viene trasformato in credito vada erogato a imprese e famiglie che vivono e/o lavorano nel territorio in cui la Bcc ha raccolto quel risparmio. Altri tre numeri indicano come la missione sia compiuta: il 23,3% del totale dei crediti destinato in Italia alle piccole imprese della manifattura e dell’artigianato viene erogato dalle Bcc, il 23,2% di quello destinato agli operatori del turismo e il 22,7% di quello erogato all’agricoltura. Tre settori fondamentali della nostra economia del territorio, capaci di coniugare tradizione e innovazione, nel segno del made in Italy».

A novembre è stata festeggiata la Bcc di Boves, nel Cuneese, che con 135 anni di attività è la più longeva ex cassa rurale d'Italia

Forse vi aiuta la vostra capillarità. Spesso le Bcc sono l’unica presenza in aree che altre banche abbandonano perché le considerano marginali e poco redditizie. Una scelta da preservare?

«In 737 Comuni, il dieci per cento del totale, l’unico sportello bancario è quello di una Bcc. L’84% di questi 737 Comuni ha meno di cinquemila abitanti mentre il 97% ha meno di diecimila abitanti. E ancora: il 31% del totale di 4.100 sportelli è collocato in aree interne. E’ un altro segno tangibile della nostra differenza e della vicinanza al territorio. Ma uno sportello bancario costa. E anche se non siamo quotati in Borsa e non dobbiamo attrarre capitali di investitori nazionali e internazionali dobbiamo far quadrare i conti. Questo modello ldi servizio sostieni se hai le spalle larghe e se ti garantisce comunque una redditività adeguata in una logica mutualistica, capace di rafforzare costantemente il patrimonio. E infatti, le nostre banche sono solide come ha confermato anche lo scorso giugno l’Autorità bancaria europea nello stress test realizzato sulle più importanti 70 banche o gruppi bancari dell’Eurozona: i nostri due gruppi bancari cooperativo si sono collocati al secondo e al quattordicesimo posto per solidità».

Ecco, una differenza quella con le altre banche che l’Ue non ha considerato e che vi ha spinto a criticarla per le troppe regole. Avete ottenuto risultati?

«A fine anno si concretizzerà un risultato che prima ancora che a Federcasse attribuirei al sistema Italia, che davvero si è mosso unito e compatto perché le nostre proposte di modifica nel senso di una maggiore proporzionalità alle regole Ue fossero accolte. La Ue tende ad avere in campo bancario una visione omologante e semplificata. Le regole come quelle definite dal Comitato di Basilea impongono norme, procedure e modelli di vigilanza tendenzialmente uguali per tutti, ma è un po’ come voler disciplinare allo stesso modo un impianto di pannelli solari e una centrale nucleare per il semplice fatto che producono entrambi energia. Tredici regioni italiane hanno chiesto nei mesi scorsi al Parlamento Europeo, al Governo italiano e al Comitato europeo delle regioni di non appesantire con norme inadeguate e/o non proporzionate la nostra operatività perché troppi oneri impropri rischia di portare alla chiusura di sportelli nelle aree interne e meno popolate. Una linea che è stata fatta propria anche dagli eurodeputati italiani in modo trasversale e dal Governo: ciò ha prodotto un risultato».

In una recente intervista ha sostenuto che al sistema delle Bcc serve coraggio e fantasia. Cosa intende?

«Coraggioso è un termine che ben si sposa con il nostro modo di fare banca. Sin dalle origini, da quando 140 anni fa venne fondata la prima cooperativa di credito a Loreggia, Padova. Trentadue soci, dei quali solo tre sapevano leggere e scrivere, con un atto di coraggio scelsero di mettersi insieme, creare una mutua bancaria spinti dalla necessità e con un’ottica di auto-aiuto. Quel seme ha generato quel che siamo oggi: il secondo operatore bancario per numero di sportelli (uno su cinque) in Italia. La fantasia, parallelamente, punta a far uscire la visione e l’operatività mutualistiche fuori dalle mura della banca. Cosi sono nate, ad esempio, Bcc Energia, un consorzio che consente di acquistare da oltre 13 anni in forma aggregata solo energia elettrica da fonti rinnovabili: oggi l’88% dell’energia consumata dalle Bcc è verde. Crediamo che si debba cambiare paradigma e sulla transizione energetica stiamo andando avanti ancora troppo piano come Paese. Alcune  Bcc hanno messo in campo forme di welfare attraverso la creazione di Mutue. Sono oggi 55, diventeranno presto 76: garantiscono servizi nel mondo della salute, in un momento in cui la sanità pubblica arretra, e iniziative in campo culturale e del sostegno alle famiglie. La differenza si può dimostrare in tanti modi concreti».