La guerra in Ucraina influenza in modo pesantemente negativo i rapporti commerciali tra i paesi europei e la Russia. Molti economisti internazionali si stanno chiedendo se questi effetti saranno temporanei o permanenti.
Nel primo caso si ipotizza che in concomitanza degli accordi di pace, che prima o poi ci saranno, l'Europa ridurrà progressivamente le sanzioni e ci sarà una riapertura reciproca dei mercati. Nel giro di un paio di anni dopo la fine della guerra riprenderanno i flussi di materie prime a buon mercato dalla Russia all'Europa e di prodotti manufatti dall'Europa verso la Russia.
Nel secondo caso, invece, si ipotizza uno scenario di continua chiusura ultra-decennale, con una strutturale riconfigurazione dei processi di regionalizzazione dei commerci mondiali, con un impatto sulle attuali Global Value Chain che sarà differenziato a seconda che il blocco coinvolga solo la Russia oppure anche quei paesi dell'Asia che ancora oggi si mostrano neutrali se non addirittura amici con il regime russo.
Gli scenari da osservare
In entrambi i casi prospettati, gli effetti di breve termine sono molto negativi, soprattutto per l’economia italiana. Quest’ultima, oltre al grave problema della dipendenza energetica dal gas russo, potrebbe mostrare anche un effetto negativo in termini di minori esportazioni di beni di lusso e beni industriali verso il mercato russo.
A livello macro, il peso delle esportazioni verso la Russia è piuttosto basso, meno del 2% delle esportazioni totali. Tuttavia, come tutti i dati medi anche questo nasconde un’ampia varianza di situazioni diverse: alcune imprese determinano nel mercato russo il 90% del proprio fatturato, mostrando una dipendenza esiziale, per altre, invece, le esportazioni russe contano meno dell’uno per cento del fatturato e non generano alcun impatto negativo sui conti aziendali.
La strategia di Palazzo Chigi
La politica economica seguita dal Governo italiano per rispondere alla crisi causata dalla guerra sembra sia definita all'insegna di nuovi sussidi e aiuti generalizzati, alla stregua di quanto inizialmente percorso nel 2020 come prima risposta al “lockdown” pandemico.
Purtroppo, i sussidi generalizzati non raggiungono mai l’obiettivo preposto: da una parte sono troppo scarsi per le “poche” imprese che sono pesantemente colpite dalla crisi, dall’altra rappresentano una inutile “mancia” alle imprese che non risentono, se non timidamente, degli effetti della crisi.
Sarebbe più utile concentrare gli aiuti a favore delle sole imprese più seriamente colpite, lasciando che le altre imprese reagiscano con le proprie forze e con la storica flessibilità di adattamento dei piccoli imprenditori.
Aiuti mirati: uno studio CNR-IRCrES
Per fornire alcune evidenze statistiche che supportano la necessità di aiuti molto mirati utilizziamo i risultati di un progetto di ricerca sul commercio internazionale svolto presso CNR-IRCrES, che consente di individuare quali siano le imprese che esportano maggiormente verso la Russia, qual è il peso di tali esportazioni sul totale esportato, qual è il peso dell'export rispetto al fatturato dell'impresa e, infine, qual è il numero di occupati coinvolti nelle probabili crisi aziendali.
Il database è aggiornato ai dati del 2019, che comunque possono essere utilizzati come proxy per le esportazioni più recenti, e mostra che ben 16.000 imprese hanno esportato in Russia, al cui interno possiamo individuare circa 13.500 società di capitali, di cui possediamo i dati di bilancio, mentre le rimanenti esportazioni si riferiscono a società di persone o a ditte individuali
I numeri e gli aiuti pubblici
Una prima indicazione aggregata è la seguente: i 7,9 miliardi di esportazioni verso la Russia rappresentano solo l’1,6% del totale esportato dall’Italia nel 2019 e le 16mila imprese coinvolte sono circa il 3-4% del totale delle imprese esportatrici italiane.
Le dobbiamo sussidiare tutte quante, con un piccolo aiuto pubblico? Assolutamente no.
Vediamo nel dettaglio chi potrebbe averne davvero bisogno, analizzando soltanto le 12.972 società di capitali con almeno un dipendente e un bilancio disponibile al 2019.
Dalla tabella si evince che il numero delle imprese seriamente coinvolte nella chiusura del mercato russo è particolarmente basso: solo un centinaio di imprese fa dipendere più del 50% del fatturato dalle esportazioni sul mercato russo e solo 40 hanno percentuali di dipendenza maggiori del 75%. E’ su queste poche imprese che si sta creando un serio impatto, probabilmente devastante, che ha conseguenze economiche sui conti aziendali e sociali nei territori di attività, e che quindi necessita di un forte e immediato intervento pubblico di sostegno.
Distretti industriali e famiglie
La tabella mostra anche l’ammontare del fatturato generato da queste imprese, quasi 300 milioni di euro per quelle esposte più del 50%, e l’ammontare degli occupati coinvolti in un eventuale fallimento aziendale, quasi 800 dipendenti (e quindi circa un migliaio di persone se consideriamo anche le figure imprenditoriali). Piccoli numeri nel contesto macro, ma molto importanti per i distretti industriali e le famiglie coinvolte.
Eventualmente, si potrebbero prendere in considerazione per un aiuto più limitato e ridotto anche quel migliaio di imprese che dipendono dalle esportazioni russe per più del 10% del fatturato, ma meno del 50%. In realtà, qui il rischio della guerra può avere un impatto veramente negativo solo se la situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa fosse già precaria e insostenibile. I bilanci collegati a questo set di imprese ci forniscono nuovamente tutti i dati necessari per interventi ancora più mirati, a favore solo delle imprese il cui deterioramento dei conti sarebbe irreversibile.
La questione della supply chain
Abbigliamento, calzature, mobili e macchinari sono i settori più coinvolti dalla chiusura dei mercati russi, e le caratteristiche distrettuali di tali settori inducono ad ampliare lo sguardo sulle catene di fornitura locali a forte rischio di fallimento. Infatti, i dati sulle esportazioni indicano l’impresa che esporta direttamente sul mercato russo, che è di solito un’impresa “capofila” del distretto oppure un’impresa commerciale, ma non tengono in considerazione la supply chain dell’impresa esportatrice. Esistono infatti tanti imprenditori che sono esportatori indiretti, che non vengono rilevati nei database doganali, in quanto semplici fornitori dell’impresa esportatrice diretta finale. Anche in questo caso il Governo avrebbe ampie possibilità di individuare chi soffre nei distretti italiani a causa della chiusura del mercato russo: utilizzando i dati delle fatture elettroniche, disponibili presso l’Agenzia delle Entrate, si potrebbero individuare i flussi di approvvigionamento nazionale delle 16.000 imprese esportartici, e poi a ritroso verificare il peso dei flussi sul fatturato del singolo fornitore.
Anche qui è quindi possibile indirizzare un aiuto mirato e, pertanto, molto efficiente ed efficace nel contenere i risvolti economico sociali della nuova crisi economica che sta affrontando il nostro Paese.
Con tutte le informazioni a disposizione, non c’è motivo per continuare a fornire aiuti generalizzati.
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