Il passaggio generazionale come problema non solo manageriale ma anche proprietario. Perché non basta ai figli entrare in azienda se poi non hanno materialmente quella disponibilità di quote azionarie che consenta loro di intraprendere scelte coraggiose dal punto di vista della crescita dell’impresa. Perché, quando il genitore, spesso il fondatore, invecchia, la crescita diminuisce e le traiettorie di sviluppo si fanno sempre più complesse. «È questo un passaggio fondamentale – spiega Alessandro Minichilli, professore ordinario di Economia aziendale alla Bocconi di Milano e direttore del Corporate governance Lab della Sda Bocconi - perché diventare manager in azienda, come sovente accade, non basta a fare del figlio, o dei figli, i futuri proprietari. Serve un reale passaggio di quote per consentire ai giovani di entrare nella stanza dei bottoni e poter fare quelle scelte che sono necessarie per la crescita delle aziende. E il problema dell’Italia non è tanto la redditività dell’azienda ma la sua crescita spesso troppo lenta».
Il peso dell'età sulla crescita
E i dati del Corporate governance Lab della Bocconi parlano chiaro. La tensione alla crescita si riduce considerevolmente dopo i 60 anni, passando da una media di circa il 14% (stabile fino a questa età) ad una di appena l’8,4%. Un leader under 50 ha un impatto positivo sulla performance: in media, il Roe (l’indice di bilancio che esprime la redditività del capitale proprio e misura il rendimento del capitale conferito a titolo di rischio) è più alto di +0,74 punti, ed ha una variazione (anno su anno) di +2 punti. Un leader over 70 ha un impatto negativo sul Roa (l’indice di bilancio che misura la redditività di un'impresa in relazione alle risorse utilizzate per svolgere la propria attività economica) di -0,31 punti, ed una variazione (anno su anno) di -2 punti. Di fatto il 28% delle 5mila imprese familiari che fatturano oltre i 50 milioni di euro hanno un leader ultrasettantenne ma la percentuale sale al 50% se si guarda agli ultrasessantenni. E che il passaggio generazionale sia un problema lo dimostra il fatto che solo il 13% delle imprese familiari riesce ad arrivare alla terza generazione contro il 30% che sopravvive al fondatore e che il 49% degli imprenditori non si ritira mai.
Imprese resilienti alla crisi
Da parte loro, però, le imprese familiari si dimostrano resilienti alla crisi. Lo dicono di dati di Aidaf, l'associazione italiana familiy business, anche a seguito della presentazione dei dati dell’Osservatorio Aub, promosso dalla Cattedra Aidagf-Ey di Strategia delle aziende familiari dell’università Bocconi, da Aidaf, da UniCredit e dalla Fondazione Angelini, con la collaborazione di Borsa Italiana e della Camera di commercio di Milano Monza-Brianza Lodi. L’Osservatorio Aub ha analizzato i dati economici di oltre 11.000 imprese familiari; i dati ne segnalano lo stato di buona salute e dopo la pandemia sono cresciute in fatturato, redditività e in solidità. Il fatturato di queste aziende, in particolare, è cresciuto nel 2021 di oltre il 20% rispetto all’anno precedente, mentre il Roe ha più che recuperato i livelli del 2019 raggiungendo il 10,5%. Una ripresa si è anche tradotta in un aumento dell’occupazione (+3,8% rispetto a prima della pandemia contro il 2,3% nelle imprese non familiari).
L'appunto di Draghi da governatore
Del resto, come ebbe a dire Mario Draghi, Considerazioni finali, anno 2010,«Quando a una nostra impresa si presenta la concreta opportunità d’ingrandirsi, agisce da remora non solo un contesto fiscale, normativo e amministrativo ancora percepito come incerto e costoso, ma anche un assetto aziendale spesso mantenuto impermeabile a soggetti esterni. Una diffusa proprietà familiare delle imprese non è caratteristica solo italiana; lo è invece il fatto che anche la gestione rimanga nel chiuso della famiglia proprietaria».
Per le imprese italiane con più di 50 addetti, si osserva la prevalenza della leadership centrata sulla figura dell’imprenditore e/o membro della famiglia. Con eccezione dei settori legati alla finanza e ai servizi informatici e di comunicazione, la percentuale di imprese guidate da un manager è sotto il 20%. Inoltre, si nota una maggiore propensione all’attivazione di progetti innovativi nelle aziende guidate da un manager e in quelle che hanno già una pianificazione riguardo al passaggio generazionale. Tra le difficoltà nell’affrontare il processo di transizione generazionale nelle imprese a controllo familiare, emerge l’assenza di eredi o successori in grado di prendere in mano le redini dell’impresa e la presenza di ostacoli di tipo burocratico, legislativo e/o fiscale; segnalato anche il problema del trasferimento di conoscenze e contatti.
L'obiettivo per i giovani eredi
«L’obiettivo – spiega ancora Minichilli – deve essere quello di favorire l’ingresso nelle quote di proprietà dei giovani eredi il prima possibile in maniera tali da responsabilizzarli pienamente senza limitarsi a farli entrare a livello manageriale. Un obiettivo che si potrebbe ottenere favorendo fiscalmente l’operazione specie se il passaggio avviene quando il fondatore non ha superato i 60 anni di vita»
Un’altra strada per uscire dalle problematiche della successione familiare può essere quella del private equity, vale a dire di soggetti finanziatori (ma non solo viste le competenze manageriali) che entrano in azienda. In questo senso il private equity può intervenire per agevolare la successione aziendale per favorire la crescita e lo sviluppo, contribuendo a sanare situazioni patrimoniali tra rami famigliari che possono avere obiettivi diversi e spesso confliggenti. Secondo i dati resi pubblici da Aifi - Associazione italiana del private equity, venture capitale private debt - le società partecipate da gruppi del settore sono circa 2mila e hanno un fatturato aggregato di 200 miliardi di euro al 2022 e 550mila addetti (nell’anno di ingresso dei fondi).
I passaggi chiave della successione
In ogni caso, l'adozione di un piano di successione il più presto possibile, con principi e aspettative chiaramente definiti, nonché una filosofia fondamentale da trasmettere che contenga un senso di comunità e di scopo, è fondamentale per gestire l'incertezza e ottenere risultati più sostenibili. «Nel momento in cui i fondatori si preparano alla successione, la governance familiare – spiega Minichilli - si rivela un meccanismo importante per condividere le informazioni sulla successione e la sua pianificazione, oltre che per coltivare la prossima generazione, dato che di solito è all'interno del consiglio di amministrazione e/o del consiglio di famiglia che la famiglia sviluppa una visione per l'azienda che coinvolge la prossima generazione. Tuttavia, è fondamentale stabilire se la continuità familiare è un obiettivo condiviso tra i membri della famiglia o se è più conveniente dividere il patrimonio tra i rami della famiglia o i singoli individui. Inoltre, la mentalità della ‘pace a tutti i costi’ potrebbe impedire di discutere liberamente questioni essenziali, portando forse alla disintegrazione dei piani di continuità finanziaria e delle relazioni familiari». Quel che è certo è che a livello europeo, si evidenziano alcune differenze di performance fondamentali tra chi ha pianificato e chi no la successione; in particolare, nel primo caso si hanno capitalizzazioni maggiori, più forti crescite dei ricavi e margini Ebitda più elevati per le aziende familiari con piani di successione.
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