Cominciamo con qualche numero. Nelle sei regioni che hanno votato il 20 e 21 settembre scorsi e che insieme rappresentano circa un terzo dell’elettorato italiano, la Lega ha raccolto il 13% dei consensi (si arriva al 23% sommando i voti della Lista Zaia, provenienti peraltro da un arco ben più ampio di posizioni politiche), il Movimento 5 Stelle il 7,6%; diciassette mesi fa, alle elezioni europee del 26 maggio 2019, gli stessi partiti avevano ottenuto rispettivamente il 34% e il 17% dei voti, risultato speculare rispetto a quello delle elezioni politiche del marzo 2018 (Lega 17%, M5S 33%). In pratica, i due partiti raccolgono oggi meno di un terzo del totale degli elettori, contro poco più di metà nelle due tornate precedenti. Il Pd, a sua volta, passa dal 18,7% delle politiche al 22,7% delle europee e al 19,8% delle regionali, che diventa 31,5% sommando le liste dei presidenti (vedi per i conteggi e l’analisi dei flussi il lavoro dell’Istituto Cattaneo). Prudenza, dunque. Ed evitiamo di leggere troppo nel risultato di settembre in proiezione sul futuro:

la fluidità del voto è e resta altissima (nel confronto fra Regionali ed Europee, in particolare, le perdite o i guadagni percentuali sono pressoché direttamente traducibili in voti assoluti, visto che l’affluenza è comparabile: 58,1% contro 56,5%).

Il fattore Coronavirus

Il 25 per cento circa sul totale dei voti espressi nelle regionali si concentra sulle liste dei presidenti, un altro 20% sta nelle liste collegate, escluse quelle dei partiti maggiori (PD, +Europa, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia); il 3,6% sono, genericamente, altri scollegati; in totale, dunque, poco meno del 50% dei voti espressi non è direttamente attribuibile ai partiti nazionali che competerebbero oggi alle  elezioni politiche (dati Alessandra Ghisleri, su La Stampa del 23 settembre). Un quarto degli elettori, in particolare, ha votato un nome, una persona: sono appunto i consensi raccolti dalle liste dei presidenti. E anche questo deve far riflettere. Si può pensare che a favore di Zaia, De Luca ed Emiliano (Veneto, Puglia e Campania) abbia giocato la gestione percepita come positiva dell’epidemia da Sars-COV2, e nel caso di Toti (Liguria) la rapida ricostruzione del Ponte Morandi; restano comunque tanti voti, a maggior ragione sullo sfondo di un referendum che ha confermato con il 70% dei consensi il taglio di un terzo del numero dei parlamentari.

Il quadro che emerge dal primo turno delle Comunali è coerente con i risultati delle elezioni regionali; qualche indicazione in più sulle correnti profonde di simpatia/antipatia fra elettorati diversi è arrivata dai ballottaggi del 4-5 ottobre, dove le alleanza (locali) fra PD e M5S hanno avuto ragionevole successo (vedi ancora l’Istituto Cattaneo).

La cautela nella lettura dei dati – e soprattutto, lo ripetiamo, nel proiettarli su un ipotetico voto politico nazionale – si impone anche per un altro motivo, l’incertezza altissima relativa all’andamento dell’epidemia. E, per conseguenza, alla situazione economica e sociale: i due fenomeni che determineranno non tanto il voto quanto lo stato d’animo degli italiani al momento di votare, quali che siano a quel punto i posizionamenti dei partiti e dei leader nazionali. Anche perché, ammettendo (auspicando?) che le risorse del Recovery Fund vengano spese presto e bene, è difficile immaginare che da lì possano arrivare risultati tangibili in termini di redditi individuali e percentuali di crescita del Pil già a scadenza della legislatura, ossia nei primi mesi del 2023.

La credibilità come punto chiave

Raffrontata al voto di settembre, la composizione del Parlamento sembra appartenere a un’era geologica precedente: le ere geologiche però in questi anni tendono a durare poco, tanto vale (forse) rassegnarsi. L’importante è che si arrivi al voto, quando che sia, con la capacità di proporre agli elettori scelte dotate di senso, e persone capaci di rappresentarle credibilmente. Questo non è affatto scontato, ma in realtà è molto più importante che azzannarsi sulla legge elettorale ottimale. A questo proposito, due osservazioni. Primo, sul piano tecnico e al contrario di ciò che si dice, per votare non è affatto necessario riscrivere la legge elettorale, basta ridisegnare le circoscrizioni, e questo può farlo anche un governo “a termine”. Secondo, se c’è un modo subdolo ma molto efficace per indebolire la rappresentatività dei parlamenti è cambiare ogni volta le legge elettorale: in realtà gli elettori le leggi imparano ad usarle strategicamente, nel senso che col tempo ne comprendono gli effetti e votano di conseguenza; ma se la legge cambia ogni volta l’apprendimento diventa impossibile.

Il taglio dei parlamentari è un intervento rozzo, ispirato a suo tempo da motivazioni brutali, se non antidemocratiche. Ma è, o potrebbe diventare, un punto di partenza. Per improbabile che possa apparire, queste Camere, che non hanno nessuna voglia di essere mandate a casa, potrebbero avere due anni di lavoro per affrontare qualcuno almeno dei cappi che strozzano il nostro paese.

Democrazia allo specchio

Certo occorre che in questo creda non solo la classe politica ma l’intera classe dirigente, il vero punto debole dell'Italia. Ispirandosi magari alla prova complessiva di efficienza, serenità e sicurezza che l’Italia ha dato nelle prime elezioni ai tempi del Coronavirus. Prova tutt’altro che scontata, se si guarda a come in circostanze simili si sono comportate (vedi Francia) e si stanno comportando (vedi Stati Uniti) altre democrazie.