«L’Italia deve diventare autonoma sul piano energetico, altrimenti rimarremo sempre un Paese dipendente da altri». E poi: «Ci vuole il coinvolgimento diretto dello Stato. Quello di cui sto parlando è un sogno, ma è un sogno realizzabile: vedere l’Italia produttrice di energia verde, grazie all’etanolo. Inquina meno ed è altamente redditizio a livello di rendimento».
Sembra scritto ieri - giusto il «coinvolgimento diretto dello Stato»appare lontano anche se poi, nei fatti, senza soldi pubblici l’energia verde resta utopia - da un rappresentante del governo, e invece sono parole di Raul Gardini dette nel 1986 in una audizione alla Camera. Intuito, visione del futuro, charme: Raul Gardini – domenica sera in onda su RaiUno la docu-fiction che ne ricorda il percorso umano e imprenditoriale a 30 anni esatti dalla morte tra l’11 marzo 1990 e il 23 luglio 1993, cioè dall’inizio simbolico della sfida di Raul Gardini per la conquista della Coppa America, con il varo del Moro di Venezia, all’ultimo giorno della sua vita - per anni ha rappresentato in Italia e nel mondo l’imprenditore di successo; poi tutto svanì, all’improvviso, e la luce si spense in una calda mattina di luglio, il 23 luglio di 30 anni fa.
Un colpo di pistola mise fine ai sogni di un uomo e di uno straordinario imprenditore che ebbe modo di saggiare la forza con cui il terribile mix tra politica e credito possono soffiare a favore o scagliarsi contro progetti imprenditoriali. Europeista convinto, Gardini sosteneva la necessità di rendere il Vecchio continente autonomo sotto il profilo alimentare ed energetico e a colpi di acquisizioni e ristrutturazioni, si era messo a giocare al tavolo mondiale della globalizzazione. Un gioco più grande di lui.
L'epicentro Ravenna
La storia di Raul Gardini, dall’ascesa fino alla morte, non è solo quella di un uomo, della sua famiglia e del suo gruppo industriale. È il romanzo di un quindicennio del nostro Paese, in un periodo di enorme fermento dal punto di vista finanziario. Raul Gardini nasce a Ravenna nel 1933 e si sposa nel 1957 con Ida Ferruzzi – da cui ebbe i figli Eleonora, Ivan Francesco e Maria Speranza – e fu tra i primi industriali all’inizio degli anni Ottanta a prevedere e a sfruttare l’esplosione dei mercati azionari. Raul entra nel gruppo Ferruzzi nel 1957, come socio al 10% grazie ai soldi datigli dal padre che non voleva andasse “sotto padrone”. All’inizio si occupò delle attività cementiere, poi del settore oleario e delle materie grasse (arrivando alla carica di rappresentante europeo della categoria), successivamente come braccio destro di Serafino, rappresentando sempre l’anima più europeista e industriale del gruppo che stava crescendo.
Salì al timone del gruppo fondato da Serafino Ferruzzi (morto il 10 dicembre del 1979) dopo che il cognato Arturo preferì defilarsi. Cominciò così a gestire il gruppo alla sua maniera spezzando le alleanze che Serafino aveva in mente di realizzare con Gianni Agnelli e le Assicurazioni Generali e incassando la fiducia da parte dei familiari, cambiò la strategia nel settore del trading, trasformando il gruppo da primo importatore europeo di derrate agricole a primo esportatore Comunitario.
Dalla soia allo zucchero
Il suo primo grande successo fu la coltivazione della soia in Italia su larga scala, consentendo all’Italia di coprire nel 1986 circa il 30% del suo fabbisogno. Nel 1985, invece, partì il “progetto etanolo”, che prevedeva la produzione di benzina verde (bioetanolo) utilizzando le eccedenze di cereali, ma la contrarietà delle compagnie petrolifere, tra cui l’Eni, nel 1987 bloccarono l’iniziativa in Italia. Nel frattempo Gardini si impegnò nel settore dello zucchero, riuscendo a conseguire il controllo della francese Beghin-Say attraverso Eridania, facendo diventare il gruppo primo produttore saccarifero di Europa.
Montedison nel mirino
L’esperienza appresa sui mercati finanziari e azionari gli consentì di attuare una clamorosa scalata alla Montedison. Approfittando delle operazioni in Borsa di Mario Schimberni, stringendo un accordo con l’imprenditore Carlo De Benedetti e rastrellando sul mercato una grande quota di azioni, nel giro di pochi mesi Raul Gardini diventò il padrone del colosso chimico italiano, con una spesa vicina ai 2.000 miliardi di lire. La conquista della Montedison, siamo nel 1987, ebbe un costo complessivo di 2.500 miliardi. Una cifra considerevole, che alcuni osservatori allora ritennero eccessiva – ricorda Gardini in una lettera al Sole inviata pochi giorni prima del suicidio – ma la valutazione degli asset Montedison di 12mila miliardi venne superata da Morgan Stanley che fissò in 15mila miliardi di lire il valore di break up del gruppo chimico.
La debacle di Enimont
La conquista della Montedison, in realtà, fu l’inizio dei guai Gardini e per la Ferruzzi. Se infatti essa da una parte consentì al gruppo ravennate di avviare i progetti di ricerca e d’integrazione agricoltura-industria che stavano a cuore a Gardini - soprattutto con Novamont l’azienda di Novara dai cui centri di ricerca uscirono le prime plastiche biodegradabili di origine vegetale - d’altra parte l’avventura in Montedison creò le condizioni per la nascita di Enimont, la joint paritetica con Eni, che anziché mettere la chimica italiana in mani private, come sognava Gardini, diventò lo strumento che tolse la chimica dal controllo di Gardini e si trasformò nello scoglio fatale per la Ferruzzi che nel 1988 acquistò il quotidiano ItaliaOggi.
Il progetto Enimont ricevette anche il placet del governo il 24 febbraio 1988 e nel gennaio 1989 venne varata la fusione. Ma, anche esasperato dalla lentezza dell’iter burocratico riguardo agli sgravi fiscali promessi dal governo, Gardini rese nota la sua intenzione di prendere la maggioranza di Enimont e il 24 febbraio 1990 disse la celebre frase «la chimica italiana sono io». Da parte sua, il presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, rifiutò la proposta di un aumento di capitale, appesantendo lo scontro tra parte pubblica e parte privata. Le tensioni aumentarono e il 9 novembre 1990 la magistratura, accogliendo la richiesta dell’Eni, sequestrò le azioni Enimont. Pochi giorni dopo la stessa Eni stabilì in 2.805 miliardi di lire il prezzo per acquisire l’intero colosso, un valore troppo alto per Gardini, che decise così di cedere la sua quota. In realtà avrebbe voluto comprare, ma l’opposizione della famiglia e la “suasion” di Cuccia lo costrinsero a desistere dall’intento: deluso, il giorno stesso della cessione. 22 novembre 1990, Gardini lasciò tutte le cariche ricoperte in Italia nel gruppo Ferruzzi.
Dall’Italia alla Francia
A quel punto Raul Gardini progettò di spostare dall’Italia alla Francia il centro degli interessi del gruppo, ma incontrò la resistenza in particolare di Alessandra Ferruzzi e del marito Carlo Sama. Nel corso del consiglio di amministrazione della cassaforte di famiglia, la Serafino Ferruzzi, Gardini (assente) fu destituito da Arturo, che ne diventò presidente. Lo strappo era ormai inevitabile e così Arturo, Franca e Alessandra Ferruzzi acquisirono la quota di Ida e “liquidarono” il cognato con 505 miliardi di lire. Con questi fondi Raul Gardini mise in pratica da solo il progetto proposto ai familiari, quello di spostare i propri interessi in Francia, facendo entrare nell’agosto del 1991 la neonata società Gardini Srl nel capitale della Société Centrale d’Investissment. Inoltre fondò Gea (holding nel settore agroalimentare), San Diego (creata per allacciare accordi con gruppi industriali messicani), Isa (servizi e consulenze per la piccola e media impresa) e Garma (polo alimentare produttore di acque minerali in Italia). In poco più di un anno e mezzo Gardini costruì un nuovo grande gruppo con circa 2.700 miliardi di lire di fatturato.
La crisi dei Ferruzzi
Le cose non andavano però altrettanto bene per il gruppo Ferruzzi, con Sama intenzionato a ridurre le dimensioni dell’azienda e il numero di attività industriali a causa delle difficoltà economiche emerse nei conti a fine 1992. Nel maggio del 1993 Carlo Sama e Arturo Ferruzzi chiesero a Gardini di ritornare nell’azionariato della Serafino Ferruzzi ma Gardini declinò l’invito e così il salvataggio del gruppo passò nelle mani delle banche creditrici, che diventarono azioniste di maggioranza, con Mediobanca che ebbe il compito di curare il riordino finanziario e strutturale: nel giugno del 1993 la gestione del risanamento industriale fu assegnata a Enrico Bondi, mentre come garante arrivò Guido Rossi. Il 23 giugno Gardini fece pubblicare sul Sole24Ore una lunga lettera in cui respingeva ogni responsabilità sul crack, mentre qualche giorno dopo manifestò la sua disponibilità a essere ricevuto dai magistrati per fornire le proprie conoscenze sui conti del gruppo.
Gli ultimi giorni
Nel 1993, intanto, partì l’inchiesta delle procura di Roma e di Milano sui presunti illeciti avvenuti nel periodo compreso tra la costituzione e lo scioglimento dell’Enimont. Il 13 luglio venne arrestato a Ginevra l’ex presidente di Montedison, Giuseppe Garofano, che nel primo interrogatorio svelò ai magistrati i meccanismi con cui venivano create le disponibilità extracontabili per pagare le tangenti a favore dei partiti di governo, coinvolgendo Gardini e Sama. Detenuto da più di quattro mesi nel carcere di San Vittore, il 20 luglio l’ex presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, si suicidò. A quel punto, Gardini chiese di essere ascoltato dai giudici ma il 22 luglio, il gip Ghitti firmò l’ordine di arresto. La mattina seguente fu trovato morto nella sua stanza da letto della sua residenza milanese a Palazzo Belgioioso: la versione ufficiale fu quella del suicidio con un proiettile della sua Walther Ppk, la stessa usata anni prima da Luigi Tenco, che gli trapassa il cervello. Per la famiglia solo un biglietto con scritto: “Grazie”. Una versione dei fatti che lasciò tanti dubbi e interrogativi ancora irrisolti e il giornalista Fabrizio Spagna scrisse (nel 2018) un libro dal titolo “Raul Gardini: un suicidio imperfetto. Storia di una vita da corsaro e di una morte sospetta”.
Il rammarico di Di Pietro
Antonio Di Pietro si rammaricò poi, in una intervista al Corriere della Sera, di non averlo fatto arrestare dai carabinieri il 22 sera, che pure lo aspettavano sotto casa: «Avevo promesso ai suo avvocati di farlo arrivare da uomo libero in procura e così feci. Se lo avessi arrestato, gli avrei salvato la vita». Ricostruzione che non convince tutti e sono in molti a ritenere che quel 23 mattina non ci sarebbe stato un interrogatorio ma l’arresto fosse già pronto.«La vera domanda - ha detto Giovanni Maria Flick, che era uno dei legali di Gardini - era in quale carcere Di Pietro l'avrebbe mandato». Ai tempi, infatti, finire a San Vittore significava carcere duro (destinazione per chi non parlava, cioè non collaborava) mentre finire a Opera significava che la scarcerazione era imminente. E siccome «Gardini era terribilmente angosciato all'idea di non saper rispondere, spiegare, chiarire - ha ricordato Flick - temeva di finire a San Vittore dopo la notizia del suicidio di Cagliari, che l'aveva molto provato»Tutti elementi che non saranno mai chiariti fino in fondo.
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