Il Recovery Plan è alla sua terza versione, e pure continua a far storcere il naso a molti. È migliorato dalla sua prima apparizione. Gli elementi di progresso sono l’aumento della quota di investimenti a circa il 70 per cento, anche se non sappiamo quanti di essi siano il semplice trasporto di spese dalla legge di bilancio a questo extra budget, e la rinuncia a un modello di governance che bypassava la complessa catena di comando e controllo dell’amministrazione pubblica. Invece, una delle sfide italiane da vincere dovrebbe essere proprio la restituzione all’amministrazione la capacità di realizzare opere e progetti in tempi normali.
Il limite potenziale
Sull’elenco delle opere e dei progetti finanziati non entriamo nel merito, perché non è possibile. È difficile essere contrari, come dice Giorgio Arfaras qui, a investimenti che modificano l’economia rendendola più pulita, inclusiva, efficiente e digitale. Sul numero dei progetti, però, ci sembra di intravedere un potenziale limite. Sono 48, ossia sono parecchi e questo lascerà sempre nel dubbio che si sia scelta la strada di accontentare 48 legittimi centri locali, settoriali, trasversali di interesse invece di scegliere di concentrarsi su una decina di priorità. La Commissione europea aveva suggerito di concentrarsi su sette obiettivi, le cosiddette sette flagship: l’energia pulita, l’efficienza energetica degli edifici, la mobilità sostenibile, la banda larga, la digitalizzazione della pubblica amministrazione, l’efficienza del settore giudiziario e sanitario, il rafforzamento del cloud e il potenziamento delle competenze digitali. Se ci fossimo esercitati nella progettazione delle righe, ci saremmo limitati a 10-12 e non saremmo arrivati a 48, per due ragioni.
Le sinfonie incompiute
In primo luogo avremmo preferito che ogni singola riga potesse ricevere l’importo necessario a sviluppare e completare l’obiettivo proposto senza lasciare spazio a “sinfonie incompiute”, probabili frammentando l’investimento in 48 voci. Non abbiamo certezza, per dirla tutta, che l’Amministrazione pubblica tra otto anni sia tutta sul cloud, né che la banda larga abbia raggiunto tutto il territorio, rendendo tutto lo stivale una piattaforma competitiva per chi voglia lavorare nell’epoca contemporanea. Chiunque acceda al sito dell’Agcom può rendersi conto che la diffusione della banda larga non è solo insufficiente quantitativamente, ma che anche dove arriva spesso serve il territorio a spese di riduzioni delle prestazioni.
Insomma, a 48 nani avremmo preferito 10 giganti.
Anche perché i costi di organizzazione della realizzazione pratica del Piano sarebbero stati semplificati, visto che l’Italia non è un campione di realizzazione di opere e progetti. Ha realizzato la ricostruzione del ponte di Genova in dieci mesi, ma da quando ha deciso (più o meno se ne parla da aprile 2020) di estendere il “modello del ponte” a una lista di opere da commissariare, ne sono passati altri dieci, senza che sia stato nominato neppure uno dei 100 commissari previsti.
I binari di Bruxelles
La seconda ragione della concentrazione sarebbe stata la necessità di ricondurre il Recovery Plan a una infrastruttura che liberi le risorse dell’investimento privato e non lo sostituisca. Con 48 righe di interventi la tentazione che lo Stato esca dai suoi binari e invada il territorio dei privati è alta. Così, sotto sotto, il Piano cela l’idea che la crescita del Pil futuro derivi proprio dal suo investimento e dall’intervento dello Stato nell’economia. Ma questo è esattamente quello che la Commissione non vuole. Il Piano deve modernizzare l’Italia, perché il suo risparmio privato (che è raddoppiato nell’ultimo anno) e perché gli investitori esteri trovino conveniente investirvi. E qui, purtroppo, il Piano scivola nell’ingenuità. Sono le somme in gioco a non essere state ponderate per quanto esse valgono nel sistema economico.
Il pallottoliere
Consideriamo i 209 miliardi, dividiamoli per 7 anni e otteniamo un investimento medio annuale di 30 miliardi. Ora, consideriamo gli investimenti privati nei sette anni precedenti al Covid e troviamo che l’economia privata, che pure aveva investito non a sufficienza, aveva però investito 2.063 miliardi complessivamente, ossia 294 all’anno. Paragoniamo le somme: Il Recovery Plan, bene che vada, vale un boost del 10% (30 su 294 miliardi) agli investimenti. Non serve a far crescere il Pil investendolo, è del tutto insufficiente. Serve a far sì semmai che gli investimenti privati, certamente scesi tornino in primo luogo al livello di prima e poi superino il livello precedente.
Questo non è chiaro né leggendo il Recovery Plan, né ascoltando le voci del Governo che l’hanno illustrato.
I privati, che saranno i protagonisti della crescita e della ripresa, sono stati i grandi assenti sia nella discussione preventiva, per la verità scarsa, sia nella spiegazione ex-post del Piano.
C’è tempo fino ad aprile per recuperare questa visione liberale del Piano, che invece alla Commissione UE è chiarissima.
Poi sarà tardi per recuperare e potremmo perfino andare incontro al rischio che, di fronte a un Piano e a pianificatori che non hanno capito il messaggio nella bottiglia della Commissione, il Piano sia fermato.
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