Chi vende dispositivi sanitari alla sanità locale, sulla base di gare e appalti regolarmente vinti, deve partecipare al ripiano del deficit delle aziende sanitarie locali. Infatti, se le Regioni spendono più di quel che possono per comprare dispositivi medici, la metà della spesa eccedente il budget prefissato viene posta a carico delle imprese fornitrici. Ci eravamo già occupati della questione su Nuovo mondo economico il 20 dicembre 2022. Una norma talmente assurda (come se un fornitore di componenti auto dovesse pagare l’eventuale deficit della casa automobilistica) che si sperava potesse essere rapidamente cambiata e considerata una colossale svista. Anche perché il risultato finale per le imprese sarà quello o di non partecipare alle gare (di fatto chiudere o ridurre la produzione) oppure di parteciparvi aumentando i listini per fra fronte a costi che non si sa esattamente di quale importo saranno con l’evidente risultato di far lievitare sempre più la spesa sanitaria.
Soluzione che non soddisfa
Le lobby del settore si erano messe in moto e si sperava che anche il legislatore avesse riflettuto sulla questione. Sono passati sei mesi ed ecco cosa ha partorito il Parlamento. La novità emersa dalla legge 26 maggio 2023, n. 56 è rappresentata dall’istituzione di un fondo statale ad hoc, con una dotazione di circa 1,1 miliardi di euro, che, in proporzione agli importi spettanti alle Regioni per il ripiano del superamento del tetto di spesa dei dispositivi medici, dimezza gli importi dovuti dalle imprese del settore, a condizione che rinuncino al contenzioso. Da una parte, è apprezzabile che si sia limitato l’impatto finanziario del payback. Dall’altra, però, il meccanismo è confermato nella sostanza e lo sono, di conseguenza, le forti criticità rilevate dalle imprese del settore. Il fatto stesso che si sia arrivati a una sorta di patteggiamento evidenzia come anche lo Stato si sia reso conto della stortura della norma, ma questa soluzione rimane non ammissibile per le logiche della libera impresa. Ben 1.500 aziende – secondo quanto emerge da uno studio commissionato da Fifo (la federazione tra le Associazioni regionali delle imprese per la fornitura di beni e servizi nel settore delle forniture ospedaliere) a Confcommercio – sono oggi costrette ad affrontare un payback che va dal 30% al 100% del loro fatturato medio annuo e risultano, di fatto, a serio rischio fallimento. Queste sono composte per lo più da micro, piccole e medie imprese, con circa 12mila lavoratori a rischio licenziamento.
Fifo ha analizzato i dati dell’intero comparto che conta complessivamente 6.386 aziende e circa 272mila addetti.«I dati che emergono dallo studio – commenta il presidente di Fifo Sanità Confcommercio, Massimo Riem – evidenziano una situazione allarmante in particolar modo per le micro, piccole e medie imprese. Tutte queste sono le più danneggiate da questa norma che le mette in condizione, già in questa fase, di fatto, di portare i libri in tribunale e licenziare migliaia di lavoratori del comparto. Sono numeri drammatici, senza considerare che tutto il settore non è a conoscenza di quali saranno gli importi di payback per gli anni successivi al 2018. Una crisi economica e finanziaria che metterà in ginocchio anche chi non fallirà nell’immediato, con l’impossibilità di pianificazione e investimenti vitali per un settore strategico come quello sanitario. Non abbiamo avuto neanche risposte dal Governo su cosa intendano fare per il futuro. Nonostante lo Stato abbia trovato 1 miliardo di coperture, condizionato alla rinuncia ai ricorsi al Tar, le aziende chiuderanno comunque». Ancora Riem: «Abbiamo fatto appello innumerevoli volte alla classe politica, sottoponendo proposte e rendendoci disponibili in ogni caso al confronto, senza avere alcuna risposta. Ci spaventa che le aziende più sane, e con una storia decennale, siano quelle maggiormente penalizzate da questa normativa. E siamo profondamente delusi per il fatto che proprio questo Governo non abbia contezza della gravità della situazione per un patrimonio nazionale di imprese qualificate e competenti che, loro malgrado, saranno costrette ad abbandonare il mercato».
Imprese, non resta che pagare (pm permettendo)
Per come stanno giuridicamente le cose oggi le imprese devono pagare, seppure meno rispetto a quanto originariamente previsto, ma devono pagare. Anzi, per come è stata costruita la legge, gli importi in questione verranno scalate dalle somme di cui le aziende sono a credito dalle Asl. Una norma contro cui sono partiti una serie di ricorsi da parte delle imprese e dei quali sono in attesa di respnso. Unica nota positiva che a seguito del provvedimento 2165/2023 del Tar, per tutte le aziende (sia quelle che rinunciano all’azione giudiziale sia quelle che la proseguono) il termine di pagamento è posticipato al 30 giugno, conseguentemente, prima di tale data non può essere dato corso alla compensazione. Si ricorda che per gli anni 2015-2018 il saldo originario per il ripiano da parte delle imprese della sola regione Emilia-Romagna (dove ha sede il più forte distretto produttivo nazionale di settore) ammonta a più di 170 milioni di euro.
Salassi anche oltre il milione
«Alcune nostre imprese – spiega il Presidente di Confindustria Emilia Valter Caiumi - si trovano nella condizione di dover versare importi superiori al milione di euro. Peraltro, l’intervento non affronta il tema del payback dovuto per il periodo 2019-2020, né interviene in modo strutturale per gli anni successivi al 2022. Riaffermiamo, ancora una volta, con forza – continua Caiumi - come sia profondamente ingiusto che un gruppo di imprese private, molte a proprietà internazionale, che generano occupazione e valore sul territorio, siano costrette a pagare il conto della sanità pubblica come se si fossero appropriate di risorse in modo indebito. E quindi non possiamo che ribadire come, pur nella consapevolezza che la gestione della sanità è un tema complesso e sempre più oneroso per consentire un’accessibilità a tutti, il prezzo di questo sistema non possa essere scaricato sul mondo dell’impresa privata».
Anomalia che rischia di far salire i costi
E’ evidente come il payback rappresenti un’anomalia e se non venisse abolito, è logico pensare che il libero mercato si organizzerà di conseguenza con rincari delle forniture e la presa di consapevolezza di una maggior necessità di fare gruppo nelle politiche di acquisto. L’unico vero fine che aveva il meccanismo del payback, ossia quello di regolare la spesa sostenuta per l’acquisto di beni e servizi in ambito sanitario, non sarà dunque raggiunto perché si creeranno necessariamente storture per rispondere a questa situazione che definire ingiusta è assai benevolo. Si tratta infatti di una assurdità dal punto di vista legale, da qualsiasi lato la si voglia guardare, che mina ancora una volta la libertà di impresa. Il risultato rischia di essere quello che o le imprese rinunciano all’appalto oppure, non potendo sapere quale sarà l’impatto del payback, aumenteranno i listini per far fronte ai maggiori oneri. Con lo straordinario risultato di far lievitare ancora di più la spesa sanitaria.
© Riproduzione riservata