Se le Regioni spendono più di quel che possono per comprare dispositivi medici, la metà della spesa eccedente il budget prefissato viene posta a carico delle imprese fornitrici. Come dire che se produco mobili per cucina e vado con i conti in rosso posso chiedere a chi mi fornisce le maniglie di pagare parte del debito. E, ironia della sorte, una delle norme che disciplina questo (folle) meccanismo, che se non corretto avrà l’effetto di mettere in crisi centinaia di piccole e medie impese che operano nel settore, è contenuto nel decreto legge 115/2022 che si chiama proprio “Aiuti bis”. Aiuti a fallire, viene da pensare, non a crescere o a resistere al Covid.  La casistica rivela casi di imprese (una in Toscana) che fatturano 3 milioni l’anno che devono restituire (al lordo dell’Iva) per gli anni dal 2015 al 2020 1,6 milioni; in media, le restituzioni valgono circa la metà del fatturato di un anno e nel distretto di Mirandola (Modena), uno dei primi per il biomedicale in Italia, arrivano richieste di rimborso fino a 3 milioni di euro. E il tutto per imprese non di produzione ma di distribuzione, che lavorano su margini sempre più ristretti e che in cassa non hanno la disponibilità che il fisco chiede di pagare in pochi giorni.

Il percorso normativo

Per capire bene di cosa si tratta occorre fare un passo indietro e leggere alcune norme. Lo strumento del payback nasce nel 2011, con il Dl 98/2011 che all’art. 17 ha stabilito che la spesa dei dispositivi medici sostenuta dal Servizio Sanitario Nazionale dovesse essere fissata entro tetti stabiliti dai decreti ministeriali di anno in anno (soglie percentuali aumentate di anno in anno). La stessa norma ha stabilito inoltre che in caso di sforamento dei tetti stabiliti, gli eventuali ripiani avrebbero dovuto essere a carico delle regioni che avessero concorso allo sforamento.

Solo successivamente, l’art. 9-ter del Dl 78/2015 ha previsto che una parte dello sforamento del tetto per l’acquisto dei dispositivi medici venisse posto a carico delle aziende fornitrici, introducendo così il cosiddetto payback. Il comma 9 dell’art. 9-ter del Dl 78/2015 specifica che “ciascuna azienda fornitrice concorre alle predette quote di ripiano in misura pari all’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa per l’acquisito di dispositivi medici a carico del Servizio sanitario regionale”. La norma individua delle soglie percentuali di quanto posto a carico delle aziende fornitrici: 40% per l’anno 2015, 45% per il 2016 e 50% a partire dal 2017 in poi. L’articolo 9-ter è rimasto a lungo inattuato fino al 2022 quando il Dl Aiuti bis ha dato il via libera al procedimento di riparto dello sforamento e ai provvedimenti con i quali le Regioni quantificano le somme che ciascuna azienda produttrice è tenuta a restituire. È importante precisare che ogni azienda fornitrice concorre all’obbligo di restituzione in proporzione all’incidenza del fatturato per ogni anno (2015, 2016, 2017 e 2018) sul totale di spesa regionale.

Come funziona il payback

E così il biomedicale, un settore che dovrebbe essere considerato strategico soprattutto dopo la pandemia, rischia di finire in ginocchio. Lo Stato attraverso le Asl ha cominciato a bussare in tutta Italia alle porte delle imprese che forniscono gli ospedali di garze, siringhe e strumentazioni anche molto complesse (dagli stent ai pacemaker) per riscuotere 2,2 miliardi di euro di sforamento della spesa per gli anni 2015-2020. Le lettere con la richiesta di pagamento (battistrada la Regione Toscana con oltre 618 milioni di euro di payback con uno sforamento quinquennale della spesa di quasi 1,3 miliardi) entro 30 giorni stanno arrivando proprio in questi giorni nelle caselle Pec di molte imprese gettandole sull’orlo della disperazione; e già circa 100 di loro hanno deciso di fare ricorso ai Tar per illegittimità costituzionale di questo meccanismo micidiale che costringe il mondo produttivo a rimborsare circa la metà dei debiti fatti dalle Regioni con le gare per gli acquisti sanitari. Molte imprese rischiano di non poter proseguire le proprie attività a partire da gennaio 2023, causando un parziale stop delle forniture ospedaliere quali strumentazioni, siringhe, garze e altro materiale di supporto al personale sanitario per la cura dei pazienti.


Fifo Sanità, Federazione Italiana Fornitori Ospedalieri in Sanità, come rappresentante delle pmi fornitrici di dispositivi medici, ribadisce con forza la propria posizione contraria a tale provvedimento, ritenendolo “profondamente ingiusto e fortemente vessatorio” nei confronti delle centinaia di aziende che contribuiscono al servizio sanitario pubblico e privato. La Federazione ribadisce la necessità di un dialogo con le Istituzioni e con le forze politiche per evitare il tracollo di un settore già falcidiato in questi anni dall’emergenza pandemica. “Dopo esserci confrontati in varie sedi sulla questione payback, speravamo – spiega Massimo Riem, presidente Fifo Sanità - in un passo indietro del Governo. E invece questa normativa va avanti senza tenere in considerazione la catastrofe economica e sanitaria che potrebbe generare. Ricorreremo in tutte le sedi giuridiche affinché le aziende non debbano pagare la scarsa capacità manageriale e di approvvigionamento delle Regioni per i dispositivi medici. Una follia che farebbe chiudere già a gennaio centinaia di pmi del settore, mettendo in mezzo alla strada migliaia di lavoratori. A questo, poi, si aggiungerebbero conseguenze gravissime per la sanità pubblica che si troverebbe con una forte penuria di attrezzature ospedaliere”.

Il ministro della Salute Orazio Schillaci dovrà provare a risolvere gli effetti del payback sanità

Gli effetti della mancata programmazione

Di fatto, se il Governo non cancella il payback deve avere il coraggio di dire chiaramente ai cittadini che non è in grado di erogare i servizi legati alla salute pubblica. E se non viene fatta una seria programmazione sanitaria, e si continuano a bandire gare per importi che superano le disponibilità del fondo sanitario regionale, le Regioni proseguiranno a sforare i tetti di spesa tutti gli anni. Così orchestrato, il payback insieme ai tetti di spesa imposti, non è altro che un modo per spostare sulle aziende fornitrici una parte dei costi sanitari che il Servizio sanitario dovrebbe erogare per curare i cittadini, ma che lo Stato non vuole pagare. “Le imprese dei dispositivi medici – spiega il presidente di Confindustria Dispositivi Medici, Massimiliano Boggetti - non possono essere chiamate a risanare i debiti delle Regioni e gli sforamenti di spesa, dovuti anche al Covid. È inaccettabile che il Governo non capisca l’impatto di un tale sistema sull’industria della salute e non comprenda le dinamiche e le conseguenze di questo provvedimento. Siamo un comparto strategico per il Paese che ha la responsabilità legale di produrre e fornire salute attraverso le gare pubbliche di acquisto e che rischia di fermarsi e chiudere”.

Una pioggia di ricorsi

I ricorsi che stanno partendo dalle aziende riguardano in particolare l’articolo 18 del decreto legge Aiuti bis e il decreto del Ministero della Salute che detta linee guida di attuazione del payback .  «Con i ricorsi appena partiti e quelli che seguiranno  – continua Boggetti - viene contestata l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per l’incostituzionalità della normativa legge, la non conformità con il diritto comunitario e la violazione di norme di legge preesistenti”. Perché, di fatto, le imprese che forniscono materiali in virtù di una gara vinta, non hanno alcuna possibilità di sapere se il tetto regionale verrà sforato o meno, né sono in grado di ipotizzare se e quanto saranno chiamate a restituire. Questa incertezza, al di là dell’evidente ingiustizia del meccanismo, è quanto di più pericoloso possa esistere per un’impresa. Senza considerare che sulla base di quei bilanci le imprese hanno pagato le tasse, che, ovviamente, non verranno mai restituite.