Il caso Calabria è la punta di un iceberg. L’emergenza sanitaria ha portato alla ribalta tante gravi disuguaglianze nella realizzazione di un servizio sanitario nazionale che, secondo i principi che lo avevano ispirato, avrebbe dovuto intrecciarsi costruttivamente con l’autonomia organizzativa delle Regioni. Alla prova dei fatti il sistema ha mostrato tutte le sue debolezze. Debolezze peraltro già evidenti da tempo se è vero, come è vero, che fino all’anno scorso mezzo milione di persone si spostavano ogni anno dalle regioni del Sud per farsi curare negli ospedali del Nord.
Poi è venuta la pandemia dove ha fatto notizia il fatto che ad aprile due pazienti di una Lombardia in piena emergenza abbiano ottenuto ospitalità (e guarigione) nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale di Catanzaro. Un’eccezione di un momento in cui il Meridione era stato risparmiato da contagi e zone rosse. Ma le eccezioni non fanno la realtà. È sempre più evidente che l’architettura istituzionale alla base del regionalismo all’italiana, un’architettura che trova nella sanità una delle sue colonne portanti, ha bisogno di una forte manutenzione.
Il ritorno dello statalismo
Sarebbe sbagliato dare tutta la colpa alle Regioni, come si è tentato affrettatamente di fare sulla scia di una rinnovata tendenza statalista di fronte alle più pesanti situazioni di crisi. Nella migliore delle ipotesi siamo di fronte a un concorso di colpa. E le colpe di Roma non sono poche. Dopo la prima emergenza sarebbe stato necessario varare un piano di interventi straordinari, finanziati anche con i soldi europei del Mes che erano a disposizione, ma doveva chiederli il Governo non certo le Regioni. E attuare interventi per adeguare personale, posti letto e terapie intensive di fronte a quella seconda ondata che tutti davano per sicura. Elaborando inoltre un progetto di sostegno alle fragilità con una politica attiva sul fronte dei trasporti e delle scuole (come spiegato da Giuseppe Russo e Pietro Terna su Mondo Economico) per contenere i costi non solo economici, ma soprattutto umani e sociali della pandemia.
Il rimpallo delle competenze tra Stato e regioni si è trasformato in un triste spettacolo di scaricabarile in cui si sono sommate le inefficienze e le incompetenze dell’una e dell’altra parte.
Lo scontro alla Costituente
La situazione parte da lontano. Proprio sull’introduzione della salute tra le competenze delle Regioni vi era stata nel luglio del 1947 una delle più animate discussioni nell’ambito dell’Assemblea costituente. È necessario – affermò in quell’occasione Giuseppe Di Vittorio (Pci) - «basare tutta la materia dell’assistenza sanitaria sulla più completa solidarietà nazionale». E di rimando Giuseppe Micheli (Dc): con l’autonomia regionale «si avrà un maggior controllo dei cittadini e non dovremo per ogni piccola questione venire qui ad inchinarci a queste formazioni centralistiche nelle quali o molti o pochi, medici o professori, comandano e dettano norme a tutta Italia. Questo non deve continuare».
Ma i protagonisti di quella discussione non potevano prevedere che il frutto delle loro votazioni sarebbe rimasto lettera morta fino al 1970, vent’anni in cui le Regioni sono rimaste una delle tante enunciazioni di principio della Costituzione.
Peraltro, le Regioni hanno radici storiche estremamente fragili. L’Impero romano era diviso in regioni, che tuttavia non corrispondevano a quelle attuali, poi è stato un susseguirsi d divisioni politiche che salvo qualche rara eccezione, come il Granducato di Toscana, non hanno mai avuto identità e dimensioni ben definite, salvo per qualche connotazione di carattere geografico o statistico.
Il Piemonte? Un’invenzione di Napoleone
Il Piemonte, per esempio, è stata un’invenzione di Napoleone che mise insieme venticinque vecchi comprensori, compresi territori come le Langhe e il Monferrato tradizionalmente lontani dalle realtà pedemontana torinese. Il tema delle regioni ha percorso poi a ondate successive la storia dell’unità italiana. Nel 1861, Giuseppe Mazzini sottolineava l’importanza di creare le regioni, quali zone intermedie accomunate «dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime»; indicando i vantaggi del sistema regionale nel fatto che, tra l'altro, «spegnerebbe il localismo gretto, darebbe all'unità forze sufficienti per tradurre in atto ogni processo possibile nella loro sfera, e farebbe più semplice e spedito assai l'andamento, oggi intricatissimo e lento, della cosa pubblica». Sono passati 160 anni. La “cosa pubblica” è ancora più intricata e lenta.
Le indicazioni di Einaudi e Sturzo
Nel 1921, su ispirazione di Luigi Sturzo, Il consiglio nazionale del Partito popolare italiano affermava «la necessità (anche per meglio risolvere il problema meridionale) che le Regioni siano organo di decentramento amministrativo e di rappresentanza politica d'interessi locali». Il regionalismo di Sturzo rientrava nella logica di smontare il più possibile lo statalismo, considerato una delle tre “male bestie” insieme alla corruzione e allo spreco di denaro pubblico.
Sullo stesso piano si sono mosse le osservazioni di Luigi Einaudi alla Costituente quando affermò esplicitamente, ma senza risultati: “se si vuole istituire la regione, si deve abolire la provincia, perché, se si aggiungesse la regione alla provincia, si moltiplicherebbero gli uffici e i gravami fiscali”.
La Costituzione delineò un’autonomia regionale con sovranità molto limitata e con particolari e attente forme di controllo da parte dello Stato centrale. L’autonomia regionale è stata infatti, e resta, una concessione dall’alto.
Il federalismo svizzero nasce dal basso
Qualcosa di completamente diverso accade nella vicina Svizzera: la Confederazione è nata dal basso, dalla decisione dei singoli Cantoni che progressivamente si sono uniti mantenendo non sole e non tanto un’autonomia, ma una chiara sovranità. Un percorso che è un modello difficile da copiare anche perché è partito settecento anni fa e si è sviluppato per aggregazioni successive: è significativo che il Cantone di lingua italiana si chiama ufficialmente “Repubblica e Cantone Ticino”.
In Italia l’elezione dei primi consigli regionali, cinquant’anni fa, rispondeva invece a logiche di breve periodo dato che si collocava nel quadro di una politica di progressiva e cauta apertura a sinistra, perché consentiva all’allora Partito comunista di governare almeno a livello territoriale in alcune realtà come quelle dell’Emilia-Romagna e della Toscana. Poi - a trent’anni di distanza alla nascita e alla significativa affermazione della Lega - si è tentato di rispondere con una riforma costituzionale, quella del famoso Titolo V, che tentando di rafforzare l’autonomia ha moltiplicato le complicazioni tra Stato e Regioni.
Il nodo di fondo sta nella formulazione volutamente ambigua delle competenze regionali. La riforma ha introdotto infatti la novità della “legislazione concorrente” in molti settori, come la salute e l’istruzione, in cui lo Stato dovrebbe determinare i principi fondamentali lasciando alle Regioni il potere di legiferare e amministrare. Il risultato è stato che la Corte costituzionale è stata chiamata centinaia di volte a risolvere i contenziosi e i conflitti di attribuzione.
Alla ricerca di efficienza e competenza
Le Regioni, titolari di una grande libertà nell’organizzazione dei servizi sanitari, hanno in questi mesi dimostrato, pur con qualche eccezione, molte lacune nel garantire ai cittadini quel diritto sancito dalla Costituzione all’articolo 32 che afferma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
La gestione della pandemia ha messo in difficoltà realtà, come quella della Lombardia, che era per molti aspetti un sistema di eccellenze anche per il rapporto costruttivo tra pubblico e privato. Una Lombardia che, insieme al Veneto, aveva promosso un referendum consultivo per avviare l’iter costituzionale per ottenere più competenze e maggiore autonomia da Roma, un referendum che ha ottenuto un larghissimo consenso, ma i cui effetti concreti sono stati praticamente nulli.
A cinquant’anni dalla loro istituzione le Regioni sono ora sul banco degli imputati. E non senza ragione. Non è un caso che proprio negli anni ’70 sia iniziata quella corsa del debito pubblico causata anche dall’aver creato strutture periferiche di spesa mantenendo centralizzata la politica delle entrate.
Più che di nuove alchimie istituzionali o di una nuova ventata di statalismo il bisogno più urgente appare quello dell’efficienza e della competenza. Due dimensioni di cui l’Italia è ricca: anche se bisogna amaramente constatare che la politica è in un’altra dimensione.
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