Il lockdown light, basato sui semafori regionali, è arrivato. L’Italia c’è entrata anche questa volta progressivamente ed è piuttosto probabile che il sistema dei semafori persisterà anche dopo la scadenza del Dpcm.

Che cosa c’è di nuovo?

Ben poco, a ben vedere. La strategia per affrontare la seconda ondata è la replica della prima e non è cambiata: si tratta di frenare e fermare la mobilità delle persone, così che il contagio non possa avvenire e i sanitari possano curare i malati, senza esserne sovrastati. C

Che cosa c’è di diverso?

Parecchio. In primo luogo, l’accoglienza delle misure di contenimento, che una brutta comunicazione definisce “restrittive” è stata assai più fredda che durante il primo lockdown. Allora, tutti compresero che era un male necessario e non vi furono proteste neppure da parte delle categorie inevitabilmente più colpite. Il secondo lockdown arriva invece con la seconda ondata, la quale era prevedibile (dato che era in corso da giugno in Spagna e da luglio in Francia), eppure ha colto il “modello Italia” impreparato.

Adesso sappiamo che ciò che oggi servirebbe (trasporti più sicuri, parco automezzi ampliato, impianti di areazione migliorati nei locali aperti al pubblico e nelle scuole, tracciamento tecnologico, protocolli) è stato trascurato o anche semplicemente omesso. In più, il primo lockdown è arrivato a stagione turistica invernale conclusa (e quella estiva si è salvata); questo invece minaccia la stagione invernale, che per alcuni settori e territori è la base dell'economia. I danni economici conseguenti saranno sistemici, e non collaterali. Essi non sono poi ristorabili tutti, se non quelli che colpiranno la prima linea degli operatori che hanno dovuto chiudere, ma poi l’impatto proseguirà a cascata sui loro fornitori, e poi sui fornitori dei fornitori. Se si guardano i numeri di crescita del risparmio precauzionale sui conti correnti degli italiani nella prima ondata pandemica, per ogni euro di prodotto omesso, famiglie e imprese hanno messo da parte altri 70 centesimi, sottraendoli al normale circuito economico, laddove avrebbero finanziato scambi e retribuito attività, mantenendo posti di lavoro.

Il conto salato di 32 miliardi. Per ora

Ogni volta che si decide un lockdown, in altri termini, l’impatto economico si amplifica e diffonde, come forse non era stato considerato quando è stato deciso il primo. Ma adesso, arrivati al secondo, i conti si possono fare bene. Il primo lockdown pertanto è costato in 53 giorni la cifra non banale di 224 miliardi di euro. Sul secondo non possiamo fare ancora un conto definitivo, perché non sappiamo se si esaurirà effettivamente il 3 dicembre. Immaginando che sia così, abbiamo stimato il calo di domanda nei settori impattati a seconda delle colorazioni iniziali delle regioni, e abbiamo trovato che, in un mese, il valore aggiunto (il Pil) che scomparirà dalla tabella della contabilità nazionale sarà di 32 miliardi.

Per la precisione: 19 miliardi sarà il prodotto (e quindi il reddito) sparito per via dell’impatto diretto e indiretto.  Altri 13 miliardi si aggiungeranno in un arco di 12 mesi, per via dell’impatto indotto, ossia per il calo generalizzato frutto della riduzione di fiducia. 18 miliardi e mezzo, in complesso, sarà il conto del costo del lockdown nelle regioni del Nord: 7,9 miliardi il costo per la Lombardia e 2,6 quello per il Piemonte. La recessione del Pil nel 2020, a causa del secondo lockdown, potrebbe sfondare la barriera delle due cifre, un valore che nessuna ripresa potrebbe recuperare in meno di tre anni. Più sono i giorni di lockdown, e più si allontana il momento di recupero e più cresce la probabilità che le imprese nel 2021 dovranno fare scelte di downsizing che impatteranno sull’occupazione, congelata in modo innaturale.

La mappa dei costi del secondo lockdown
La mappa dei costi del secondo lockdown
Fonte: stime Centro di ricerca Luigi Einaudi e Mondo Economico. Dati in milioni di euro correnti per regioni

Il lockdown non piega la pandemia

Chi invoca i lockdown li considera lo strumento più duro ed efficace, ma in realtà anche se i lockdown sono stati operati in numerosi paesi, durante la prima ondata, è dubbio che abbiano piegato la pandemia. I progressi dei lockdown, infatti, sono inutili senza un sistema di tracciamento, test, trattamento e isolamento che è stato il vero punto di forza dei paesi asiatici (come la Corea del Sud e Taiwan) che hanno continuato a controllare l’infezione dopo il lockdown. L’esperienza italiana è l’esatto controfattuale, perché l’assenza di un sistema di questo genere non ha consentito di rendere permanenti i vantaggi sanitari del primo duro e costoso lockdown.

Il secondo lockdown avrebbe potuto essere ridotto di molto o addirittura risparmiato se l'estate non fosse passata invano.

Sapevamo

Sapevamo di avere il coefficiente di posti letto / abitante negli ospedali tra i più bassi d'Europa, ad esito dei tagli lineari. Sapevamo di avere la flotta dei mezzi pubblici più vecchia, con impianti di areazione non adeguati. Sapevamo di avere una popolazione più anziana degli altri paesi. Sapevamo che la parte più produttiva del paese è nella pianura padana, umida e fredda per sei mesi, con maggiore inclinazione alla diffusione delle patologie respiratorie.

Sapevamo di avere un'economia nella quale avevamo investito per valorizzare socialità e cultura, con buon successo, promuovendo i vantaggi dell’italian way of life, e dunque sapevano di avere una forza lavoro per oltre il 15% collegata direttamente a questo mondo, dal quale non possiamo più prescindere. Sapevamo, infine, che la sanità territoriale, con varie differenze, era sguarnita. Sapevamo perfettamente le nostre fragilità e, per la prima volta nella storia, l'Europa aveva sospeso il patto di stabilità per due anni, fornendo finanziamenti ingentissimi per far fronte all'emergenza.

L’incomprensione

Non solo per una arida questione di costi, il secondo lockdown è stato molto meno compreso del primo, ma perché dietro ai costi ci sono progetti di famiglie e di imprese che rischiano di andare all’aria e perché molte misure sono state adottate anche quando erano praticamente incomprensibili. Così è stato per la chiusura dei teatri, che in cinque mesi di riapertura avevano prodotto un solo contagio su 350 mila visitatori e - possiamo dircelo - i luoghi di cultura non sono mai stati luoghi affollati né dove non si rispettassero i protocolli.

Incomprensibile anche la chiusura delle scuole, a partire dalla seconda media inferiore, che sono rimaste aperte in Francia, in Germania e Regno Unito, che pure sono andati sulla strada del lockdown light autunnale.

L’Italia, tra questi Paesi, è quello che meno di tutti si dovrebbe permettere un lockdown scolastico, perché questo potrebbe favorire l’abbandono scolastico durante il percorso superiore, nel quale abbiamo purtroppo un record negativo. I lockdown, infine, sono misure di emergenza e tutte le emergenze, nelle democrazie, autorizzano la sospensione di diritti e libertà a condizione che abbiano un termine e, quindi, siano accompagnate da politiche di soluzione dei problemi che li hanno determinati. Eppure, proprio su questo fronte si è fatto poco: non si sono, per esempio, protetti i fragili o lo si è fatto estemporaneamente e in ritardo.

I semafori stop and go

Il governo attribuisce al sistema dei semafori la virtù di intervenire in modo automatico e locale prima di arrivare al lockdown generale. Ma il rischio è che senza un piano strutturale per evitare di ricaderci, quello dei semafori diventi un perpetuo pendolo di “stop and go”: può anche essere che funzioni per la sanità pubblica ma non funziona per l’economia, nella quale gli agenti devono fare piani di medio e lungo termine, senza i quali non si scongeleranno né le spese delle famiglie né gli investimenti delle imprese.

Il tempo per considerare l’economia una questione secondaria è stato quello di marzo.

Adesso la stessa politica non solo non ha più un consenso sufficiente, ma non ha neppure i mezzi materiali per stare in piedi da sola.