Essere sostenibili per davvero richiede tempo, dedizione, competenza e, inevitabilmente, investimenti. Essere sostenibili per davvero è quindi motivo di orgoglio perché determina la consapevolezza dello sforzo e dell’impegno profusi per creare un modello imprenditoriale orientato a creare impatto positivo sugli stakeholder, ridurre le esternalità negative e, in definitiva, determinare un beneficio comune.

Con questo traguardo si organizza la propria sostenibilità attraverso il perseguimento dell’equilibrio positivo tra tutti i fattori che la compongono (economico, sociale e ambientale), sapendo che bene comune non è incompatibile con lo scopo di profitto ma che il mercato è destinato a valorizzare quelle imprese che ne tengono conto nelle strategie aziendali.

La sostenibilità, questa sconosciuta

La sostenibilità nelle sue molteplici accezioni è quindi un percorso costante di miglioramento tramite assunzione di comportamenti e perseguimento di obiettivi che superano i meri parametri legislativi e che, come dicevamo all’inizio, richiede dedizione, tempo, pensiero e denaro.

Chi conosce, per averli vissuti personalmente, questi aspetti, difficilmente può accettare atteggiamenti di concorrenti che si autoproclamano sostenibili senza esserlo davvero: è l’ormai noto fenomeno del greenwashing che si concretizza nell’utilizzo di espedienti e messaggi commerciali che fanno credere di aver adottato dinamiche rispettose della sostenibilità ma che invece nascondono politiche green del tutto superficiali, ben poco sistemiche e radicate e che – nei casi più gravi – hanno lo scopo di distogliere l'attenzione da dinamiche aziendali idonee a creare impatti e esternalità negative.

Non dimentichiamo infatti che, soprattutto negli ultimi anni, simili comunicazioni possono assicurare a chi le attua un vantaggio reputazionale e competitivo rispetto ai concorrenti migliorando l’immagine dell’azienda e assicurandole una veste ritenuta encomiabile.

Pubblicità canaglia

Ecco perché le semplici dichiarazioni pubblicitarie idonee a creare equivoci, le promesse aziendali prive di riscontri e azioni credibili non sono più accettabili né accettate da un pubblico di consumatori sempre più attento e da concorrenti che, consapevoli dei costi e degli sforzi necessari per implementare un sistema aziendale autenticamente rispettoso dei criteri ESG, ritengono questi comportamenti distorsivi del mercato e dannosi della concorrenza.

E del resto, le informazioni generiche relative a impegni di sostenibilità assunti dall’imprenditore prive di un qualche riscontro nelle condotte concretamente attuate è indice della violazione dei principi generali di buona fede e correttezza, in quanto i comportamenti non coerenti con le affermazioni e quindi con le rassicurazioni fornite possono arrecare pregiudizio in chi ha confidato nel rispetto di tali dichiarazioni di sostenibilità, che dovrebbero invece essere vincolanti per chi le divulga.

Da un punto di vista normativo, nel nostro ordinamento la diffusione di notizie di sostenibilità vaghe, non verificabili e comunque non veritiere è idonea a costituire:

  • atti di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., ossia il valersi “direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”;
  • pratica commerciale scorretta, su cui si vedano in particolare gli artt. 18, 20 e 21 del Codice del Consumo, (d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206);
  • pubblicità ingannevole, ossia “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente” (cfr. art. 2 lett. b) d.lgs. 2 agosto 2007 n. 145).

Con riferimento a questo ultimo aspetto in Italia esiste L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria che individua le regole per una comunicazione commerciale “onesta, veritiera e corretta”, a tutela dei consumatori e della leale concorrenza tra le imprese. Tale obiettivo è perseguito attraverso l’implementazione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale che, elaborato il 12 maggio 1966, è giunto alla sua 68a edizione il 9 febbraio 2021.

All’articolo 12, così come introdotto nell’edizione del 2014, stabilisce che «La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono” e all’art. 6 prevede che chi si vale della pubblicità deve essere in grado di dimostrare “la veridicità dei dati, delle descrizioni, affermazioni, illustrazioni e la consistenza delle testimonianze usate».

L'ingiunzione di desistenza

Ai sensi dell’art. 32 del citato Codice di Autodisciplina, il Giurì è l’organismo deputato all’esame della comunicazione commerciale e il Comitato di Controllo, tra i vari poteri, può invitare in via preventiva a modificare la comunicazione commerciale che appaia non conforme alle norme del Codice, emettere ingiunzione di desistenza ed esprimere pareri preventivi.

Da un punto di vista processuale e procedurale, fino alla fine del 2021 non risultavano in Italia pronunce in tema di greenwashing da parte dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria, ma solo ad opera dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, al cui potere di controllo e sanzionatorio sono soggette le pratiche aziendali rientranti nella nozione di pubblicità ingannevole: tra l’altro, ai sensi dell’art. 8 del citato d.lgs. 145 del 2007 l’AGCM, “d'ufficio o su istanza di ogni soggetto o organizzazione che ne abbia interesse, inibisce la continuazione ed elimina gli effetti della pubblicità ingannevole e comparativa illecita”.

Il caso di Gorizia

Ebbene, dopo numerosi casi in cui l’AGCM ha sanzionato comunicazioni non coerenti con le previsioni normative, è per la prima volta intervenuta l’Autorità Giudiziaria Ordinaria con l’ordinanza n. 712 del 25 novembre 2021 del Tribunale di Gorizia, emessa nell’ambito di un procedimento cautelare (e quindi d’urgenza) instaurato dalla società milanese Alcantara s.p.a. contro la Miko s.r.l. per una serie di comunicazioni relative a una microfibra utilizzata, tra l’altro, nell’arredamento e nelle automobili.

In via d’urgenza e in seguito a una valutazione sommaria (come è tipico dei procedimenti d’urgenza, e quindi con riserva di conoscere l’esito di un eventuale reclamo o di un eventuale giudizio di merito), il Tribunale ha ritenuto che le comunicazioni di sostenibilità e di richiamo alle virtù ecologiche e di protezione dell’ambiente utilizzate da Miko per pubblicizzare la sua microfibra fossero generiche, superficiali e prive di riferimenti e prove a fondamento delle stesse affermazioni.

L'approdo in Tribunale del greenwashing

Interessante osservare che nel provvedimento si legge come alcuni clienti della ricorrente Alcantara avessero chiesto a quest’ultima riscontri e spiegazioni sulle sue politiche di sostenibilità alla luce di quelle esposte dalla concorrente, da cui si comprende ulteriormente l’interesse di Alcantara a un provvedimento sul punto e l’impatto che efficaci comunicazioni green possono avere sul pubblico.

La pronuncia è molto significativa perché da una parte sancisce il momento a partire dal quale il greenwashing arriva anche nei tribunali italiani e dall’altra perché dimostra quanto la comunicazione in tema di sostenibilità debba ormai essere improntata a criteri di rigore, veridicità, accuratezza, dimostrabilità, verificabilità scientifica, a tutela della corretta concorrenza e dei consumatori che sempre di più orientano le loro scelte anche in base ai messaggi pubblicitari ambientali.

I green claim

La conseguenza è una inevitabile massima attenzione in una comunicazione di sostenibilità che rifugga la mancanza di informazioni e di prove, la superficialità o la falsità del messaggio, l’ambiguità, la carenza di evidenze. Sempre di più, insomma, il pubblico e i concorrenti chiederanno chiarimenti su come le politiche aziendali valorizzate come favorevoli per l’ambiente abbiano davvero un impatto positivo e comportino davvero la realizzazione, ad es., di prodotti naturali, riciclabili e idonei a ridurre il riscaldamento globale. I cosidetti green claim sono destinati a essere soggetti a un esame più severo tanto che i produttori dovranno evitare di rendere dichiarazioni che non possono sostenere e dimostrare.

Ci sembra utile concludere ricordando che la Federal Trade Commission (FTC) americana aveva introdotto alla fine degli Anni Novanta delle linee guida per l’utilizzo di environmental marketing claims, poi ulteriormente rielaborate fino all’ottobre 2012, ossia norme che impongono correttezza e continenza nella comunicazione del proprio impegno ambientalista e che il 21 maggio 2021 anche la Competition and Market Authority (CMA, ossia il corrispondente inglese del nostro Antitrust) ha pubblicato linee guida sulle indicazioni di tipo ambientale per arginare greenwashing e pubblicità ingannevole.

Sul piano comunicativo la E di Environmental comincia finalmente e opportunamente ad avere la sua attenzione e la sua tutela. Aspettiamo il momento in cui questa attenzione verrà data anche alla S di Social, ancora in parte trascurata.