Da una parte, c'è tanta domanda di vaccini, dall’altra, mancano gli stabilimenti per produrli: siamo di fronte ad un tipico caso di “fallimento del mercato”, con l’agire delle imprese che non riesce a risolvere il problema del mancato incrocio tra domanda e offerta.
Il fallimento del mercato è certificato dal comportamento degli operatori. L’offerta non aumenta la capacità produttiva, perché chi possiede il brevetto agisce in regime di quasi-monopolio e può quindi permettersi il lusso di mantenere la capacità produttiva iniziale (lasciando lievitare i prezzi), mentre chi vorrebbe produrre vaccini su licenza non ha le informazioni per decidere il nuovo investimento: costi, prezzo, quantità richieste dalla sanità pubblica (non oggi, ma il prossimo anno), informazioni necessarie per un business plan che suggerisca di investire da zero nel management e nei nuovi impianti innovativi.
Infatti, per aprire un nuovo impianto di produzione di vaccini occorre investire in un ciclo produttivo molto complesso, che deve rispettare certificazioni internazionali e buone pratiche di produzione (GMP), in cui si possono “riciclare” solo piccole parti delle competenze e del know how accumulato nella farmaceutica tradizionale. Occorre partire da zero, con elevato rischio tecnologico, che necessita di elevati capitali di rischio, e pertanto non viene effettuato senza un intervento pubblico che elimini parte di tale incertezza, magari fornendo i capitali iniziali per investire e definendo i prezzi di vendita dei vaccini alla sanità pubblica.
Il fallimento di mercato giustifica un intervento pubblico
Il leader apripista di questa politica pubblica è stato il paese con l’economia più liberista al mondo: il governo degli Stati Uniti già a marzo del 2020 ha attivato il programma Warp Speed (che possiamo tradurre con “viaggio più veloce della luce”), investendo ben 10 miliardi di dollari nelle imprese farmaceutiche che cercavano di sviluppare un vaccino anti Covid-19. Si è trattato di un vero e proprio investimento di rischio, nella ricerca e sviluppo di un prodotto innovativo, condotto da un soggetto pubblico per stimolare gli investimenti privati. Ne hanno goduto numerose imprese, alcune con successo immediato (Pfizer e Moderna), altre con tempi più lunghi di riuscita (AstraZeneca, Sanofi, GSK, Merck, Johnson&Johnson).
Il successo del programma Warp Speed è stato essenzialmente nella sua rapidità di implementazione: un paio di mesi dopo la diffusione del sequenziamento del virus SARS-Covid-19 (avvenuta a dicembre 2019) la spesa pubblica statunitense aveva già attivato la corsa al vaccino e la concorrenza tra i privati.
La lentezza dell'Europa
A fronte della velocità di iniziativa del governo “liberista” statunitense si contrappone la lentezza di risposta del continente dove il welfare state rappresenta la colonna portante del suo modello di sviluppo: l’Unione Europea. Ancora una volta, come nel confronto Usa-Ue con la risposta alla crisi del 2008, l’Unione Europea si è fatta battere in velocità e, forse in questo caso, anche nei contenuti del suo intervento.
Come scrive Paul Krugman sul New York Times, sembra infatti che l’Unione Europea abbia avuto paura di un intervento pubblico massiccio, ha osato di meno per non essere criticata di eccessivo statalismo, abbia speso di meno nei contratti di acquisto per non essere criticata di sperpero dei fondi nazionali, abbia atteso gli esiti di un equilibrio del mercato nel momento in cui era presente un vistoso “fallimento del mercato”. Infatti, mentre l’Ue si è comportata da semplice cliente, che ha semplicemente contrattato un acquisto, gli Usa si sono dimostrati invece un vero e proprio partner, che ha rischiato miliardi di dollari nello stesso sviluppo del vaccino, favorendone quindi la nascita e una maggiore produzione locale. Un intervento pienamente statalista, se consideriamo che ha anche imposto per legge che la produzione fosse destinata in primo luogo alla sanità pubblica statunitense.
Non si riesce a decollare: perché?
Dalle necessità del 2020 di sviluppare ex novo il vaccino, a quelle di aumentarne a dismisura la produzione nel 2021, il passo è breve e risente dell’impostazione originaria. Mentre negli Usa si crea un tavolo negoziale per favorire le joint-venture tra chi detiene il brevetto e chi può aggiungere capacità produttiva, nell’Unione Europea si attende che i privati negozino tra loro e trovino un accordo per aumentare la produzione, perseverando nell’idea di intervenire solo successivamente con un nuovo ordine di acquisto. Forse è anche per questo motivo che siamo lontani dalla produzione ottimale di vaccini.
Per fortuna, nelle prime settimane di aprile 2021 si incomincia a intravvedere un maggior coraggio di intervento europeo nella fase dell’incentivazione della produzione, anche su spinta del paese di cultura più statalista: il governo francese ha recentemente ipotizzato un programma pubblico per attivare nuova produzione in Francia (ma anche il governo tedesco sta andando nella stessa direzione). Ovviamente, le produzioni aggiuntive nazionali saranno inserite nella grande “centrale degli acquisti” gestita dalla Commissione, ma ciò non significa che Francia e Germania abbiano incominciato, anzi continuato, ad impostare una politica industriale a favore delle nuove produzioni biotecnologiche che si svilupperanno presto dall’attuale esperienza del Covid-19. Investire oggi nella produzione di vaccini faciliterà la nascita di un robusto comparto biotech che si affianca all’industria farmaceutica più tradizionale.
E l’industria italiana?
L’industria farmaceutica italiana: leader in Europa, ma anche anatra zoppa
L’industria farmaceutica italiana è la più grande produttrice europea di farmaci insieme all'industria tedesca. Ma nonostante ciò sono poche le imprese italiane adeguatamente strutturate per produrre vaccini biotech.
Come mai?
La risposta si ottiene esaminando alcune caratteristiche della struttura industriale del settore, con particolare riferimento sia alla governance delle imprese, che alla tipologia dei prodotti farmaceutici, che all’organizzazione industriale. Per quanto riguarda la governance, si tratta soprattutto di imprese a gestione famigliare, di piccola, media o grande dimensione, che hanno una naturale difficoltà a rischiare risorse finanziarie da destinare alla ricerca e alle innovazioni di prodotto, soprattutto in un’area nuova come quella biotech. Il fatto che le dimensioni medie dell’industria italiana siano nettamente inferiori a quelle dell’industria francese o tedesca non dovrebbe pesare ulteriormente sull’approccio verso l’innovazione, come confermato dal fatto che i vaccini Covid-19 sono stati “inventati” da piccole start-up come BioNtech e Moderna. Ciò che invece conta è probabilmente la predisposizione al rischio, che è molto differente a seconda della governance aziendale, e la natura del capitale finanziario, che è molto diversa se si parla di “investimento industriale” o di “investimento in ricerca e sviluppo”.
La tipologia della produzione
L'altro elemento importante riguarda la tipologia di produzione, con l'industria italiana che vanta una grande competenza e un elevato vantaggio competitivo nella produzione di farmaci “tradizionali”, cioè farmaci non biotecnologici (per quanto la produzione di un farmaco sia estremamente complessa, in termini di certificazioni e Good Manufacturing Practice). La storia della manifattura italiana ci insegna che questa competenza deriva soprattutto dal grande patrimonio tecnologico presente sia nel settore della chimica fine che in quello dei macchinari industriali. Questi ultimi sono leader europei non solo nel processo farmaceutico ma, soprattutto, nelle fasi a valle del “bulk”, quali l’infialamento e il packaging, fasi in cui è presente il vero vantaggio competitivo italiano (l'invenzione del collirio monodose è una delle più semplici evidenze a questo riguardo) e che hanno favorito una particolare organizzazione industriale basata sul contoterzismo. L’Italia è la patria delle imprese “terziste”, cioè ottime produttrici su licenza, in (piccoli) lotti personalizzati, inserite nelle Global Value Chain del farmaco UE, che fanno del nostro paese la piattaforma produttiva da cui si esportano compresse, pastiglie, sciroppi, fiale in confezioni che vanno direttamente alla fase distributiva nei paesi UE.
Tuttavia, la crisi pandemica ha confermato che la crescita del mercato è sempre più spostata verso i farmaci biotecnologici, che necessitano di un processo completamente diverso rispetto a quelli in cui siamo leader produttivi. Un confronto storico potrebbe essere esemplificativo: è come passare dalla costruzione di perfette macchine da scrivere alla produzione di personal computer, evoluzione tentata dall’Olivetti, quattro decenni orsono. È un passaggio che la singola impresa non ha convenienza a effettuare da sola, stante la notevole incertezza che lo caratterizza. Al contrario, una politica industriale a favore dell’industria farmaceutica potrebbe utilizzare l’esperienza Covid-19 per favorire un’evoluzione del comparto farmaceutico, che lo rafforzerebbe nel medio termine.
Siamo ancora in tempo per organizzare un intervento pubblico in Italia?
Sì. Siamo ancora in tempo per organizzare un intervento pubblico in Italia.
Una politica industriale per la produzione di vaccini in Italia consentirebbe di ottenere due importanti risultati per l’industria manifatturiera: in primo luogo, contribuire all'approvvigionamento europeo di vaccini per gestire la pandemia e la futura gestione della salute pubblica post-Covid (la costruzione di un “mercato unico della sanità UE” non è più un’utopia); in secondo luogo, con la nascita e la crescita di nuovo comparto farmaceutico, specializzato nei farmaci biotech (di cui i vaccini ne rappresentano solo una componente), favorire una maggiore resilienza dell’industria italiana nel medio lungo termine.
Qualche ipotesi di lavoro
Merita ricordare come solo recentemente la stampa quotidiana ha finalmente evidenziato che ogni impianto con “bioreattore” ha un contenuto tecnologico molto specifico, e che quindi i bioreattori già presenti (anche se in minima misura) nella farmaceutica italiana non sono generalmente idonei alla produzione dei vaccini mRNA, e andrebbero pertanto costruiti ex-novo. Un ente finanziario pubblico, come per esempio la Cassa Depositi e Prestiti, insieme a qualche operatore di trasferimento tecnologico - come gli enti pubblici di ricerca, i parchi tecnologici, gli incubatori tecnologici (cito, per esempio, Toscana Life Science) – hanno ampie possibilità di organizzare un intervento pubblico per la nascita di nuove imprese specializzate in vaccini e farmaci biotech. Occorre anche garantire, con i fondi di gestione della pandemia, l’assorbimento dei primi 2-3 anni di produzione, che consentono un’ulteriore riduzione del rischio.
Abbiamo già la disponibilità di fondi e l’architettura normativa: da una parte, il governo Draghi ha già messo a disposizione 400 milioni per favorire la nuova produzione, dall’altra, la nuova normativa del “contratto di sviluppo” può essere applicata alle imprese che hanno già dato una disponibilità di massima ai nuovi investimenti. Oltre a tentare di attivare la fase di produzione vera e propria, il “bulk” del prodotto, potrebbe essere più rapido attivare le imprese della filiera biotech che lavorano nelle fasi a valle, quelle dell’infialamento e del packaging, in cui siamo già presenti con accordi commerciali europei.
Tanti fattori spingono affinchè si vada avanti su questa strada: la teoria economica, proprio per la presenza dei fallimenti del mercato; le politiche UE sugli aiuti di Stato, che l’emergenza pandemica ha fortemente attenuato; il PNRR, che giustifica l’upgrading della struttura industriale in risposta alle ultime “raccomandazioni specifiche per paese” giunte dalla Commissione UE.
Infine, è innegabile che questa politica avrebbe un costo inferiore al servizio del debito pubblico e un ritorno economico, sociale e ambientale superiore ad un pari investimento per far sopravvivere una compagnia aerea di bandiera come Alitalia.
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