Nella giornata di mercoledì 30 ottobre sono stati divulgati i dati sul Pil dell’Eurozona e, in contemporanea, degli Stati Uniti. Analizziamo i principali risultati.

Oltre l’oceano la crescita non si è fermata. Il Pil fa segnare un aumento tendenziale di +2,8% in termini reali. Con due buone notizie accessorie. Il deflatore del prodotto cresce di +2,2 punti, indicando che la cura anti-inflazione della Fed ha avuto successo. E’ la prima volta da oltre venti anni che un aumento dei tassi di interesse non ha portato dritti in recessione. Il soft landing è riuscito e Jerome Powell può incassare il merito di un’azione che non riuscì, per esempio, a Greenspan nel 2000.
In secondo luogo, i consumi anticipati (reali) crescerebbero del +3,8 per cento. Anche questa è una buona notizia per la congiuntura, perché il saggio di risparmio degli americani è quasi ai minimi storici, all’incirca del 2 per cento, il che significa che il sentiero dei consumi, che da sempre sono il primo motore economico degli Stati Uniti, non è ancora minacciato. A sostenerlo sono – ahimé – più i debiti delle carte di credito (oltre 8000 dollari pro capite) che non gli aumenti salariali, ma il mercato del lavoro teso, dove è difficile trovare persone da occupare, dovrebbe prima o poi convincere i datori di lavoro a pagare meglio i dipendenti.
A proposito di questo, nella stessa giornata del 30 ottobre è stato diffuso il dato provvisorio dei cedolini (ogni cedolino corrisponde a una paga, ma non necessariamente a un occupato a tempo pieno), che ha nuovamente superato le 200 mila unità. L’economia reale assume e va così bene che in base a queste notizie Wall Street ha ritracciato dai suoi massimi storici, quasi a presagire che il prossimo ribasso dei tassi potrebbe non essere “jumbo” come il primo e precedente.
In definitiva, gli ultimi dati economici d’America prima delle elezioni, favorirebbero la candidata democratica in continuità con l’amministrazione di Joe Biden, che può intestarsi un fine mandato in buona forma, quanto meno sull’economia. Meno positivi, peraltro,  si sono rivelati i successivi dati relativi al mese di ottobre, con la creazione di soli 12.000 posti di lavoro, l’incremento minore dal dicembre del 2020, anche a causa di due uragani e di importanti scioperi.

 

Ben altra musica da questa parte dell’oceano Atlantico. Qui la congiuntura soffre. Anche se molti hanno commentato che l’Europa mostra segnali di ripresa, noi siamo molto più cauti. Il PIL dell’Eurozona è infatti cresciuto appena dello 0,4% nel terzo trimestre, con una crescita annua dello 0,9%. Nell’UE a 27 l’incremento trimestrale congiunturale è stato dello 0,3%, identico al trimestre precedente, e l’aumento annuo si è fermato anche qui allo 0,9%. A ben pensarci, per un continente come l’Europa, che dovrebbe recuperare almeno un punto di crescita rispetto agli Stati Uniti, la distanza si è invece accentuata, perché tra i due continenti il divario istantaneo di crescita sembrerebbe dell’1,9 per cento, a sfavore dell’Europa. L’Europa ha pressione fiscale già più alta e spesa per il welfare state maggiore degli Usa. Ha un invecchiamento maggiore e Borse meno dinamiche ed efficienti di quella americana. Decisamente siamo fuori da qualsiasi idea di sentiero di recupero del divario.
Che la soluzione sia la “cura Draghi” di 800 miliardi all’anno di investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture, nella difesa e nelle tecnologie innovative o che se ne concepisca un’altra, questo dovrebbe essere il punto più importante dell’agenda economica della Commissione da poco insediata, da conciliare, per quanto realisticamente possibile, con le priorità delle due transizioni.

La Germania comunque ha evitato la recessione tecnica grazie a misure governative e alla spesa delle famiglie, mostrando un incremento congiunturale del Pil dello 0,2% nel terzo trimestre. Tuttavia, su base annua, il PIL tedesco si è comunque ridotto dello 0,2%, che diventa +0,2% solo correggendo il dato grezzo per il numero di giornate lavorative. Nel terzo trimestre, tuttavia, la crisi dell’auto in Germania non era ancora assurta a livelli di emergenza, ragione per cui è possibile che il quarto trimestre torni in rosso. La Germania resta il grande malato d’Europa per avere puntato tutte le sue carte sui mercati ad est, sui quali adesso i suoi prodotti incontrano difficoltà. Sostituire quelle esportazioni non sarà semplice, anche perché l’ipotesi più ragionevole sarebbe far crescere la domanda interna, cosa non facilissima senza mandare in deficit il bilancio pubblico, cosa che i tedeschi tendono a non fare.
 
In Francia continua una flebile ripresa: le Olimpiadi hanno stimolato l’economia, che è cresciuta dello 0,4% nel terzo trimestre, grazie ai consumi interni. Su base annua, il PIL francese aumenta dell’1,3% e la Francia è l’unico grande paese che supera il punto percentuale. Difficile pensare che lo manterrà, visto che la crescita francese si basa su un bilancio pubblico che Macron ha fatto scendere al -5,5% del Pil nel 2023 e al -6,1% nel 2024. Sono numeri “da Italia” che non eravamo abituati vedere intestati alla “Grandeur”. La manovra in arrivo, da 60 mila miliardi, difficilmente non impatterà sulla crescita. La sua dimensione è sufficiente a produrre una recessione tecnica: non una bella fine per l’ultimo mandato del Presidente Macron, abile manovratore in politica che si è però rivelato meno efficace delle aspettative in economia. Il ceto medio l’aveva promosso Presidente per l’età, l’energia ma anche perché proveniva dal mondo dei banchieri d’affari: una garanzia per non far correre rischi all’economia che alla fine è stata delusa.
 
La Spagna continua a sorprendere con la sua crescita robusta: +0,8% nel terzo trimestre, con un tendenziale annuale significativo: +3,4%. La Spagna è una economia demograficamente più giovane della media europea. Si è trovata in anticipo sulla transizione energetica e riesce ad offrire a cittadini e imprese energia a basso costo, il che lascia spazio alla spesa privata che invece altrove deve pagare bollette pesanti. Inoltre si sta avvantaggiando della ripresa internazionale del turismo. Nel quarto trimestre vedremo tuttavia un calo, perché le catastrofi climatiche che l’hanno colpita fermeranno il Pil in una quota significativa del paese.
 
L’economia italiana rimane invece stagnante: il PIL è del tutto invariato rispetto al trimestre precedente, mentre progredisce dello 0,4% su base annua. Ciò pone molti dubbi sulla possibilità di raggiungere l’ambizioso obiettivo di crescita dell’1% per il 2024, quale previsto dal governo.
L’Istat attribuisce questa “crescita zero, senza la virgola” a una crescita nel settore terziario, una lieve contrazione in agricoltura, silvicoltura e pesca, e un significativo calo nell’industria, con l'automotive in particolare difficoltà.
Tutto vero, però non possiamo dimenticare che questo risultato non è solo figlio della congiuntura. E’ anche figlio del particolare modello di crescita dell’ultimo ventennio.
Figura 1 – Numeri indici di alcune variabili economiche, base 1996=1. Si osservi il confronto Pil, esportazioni, investimenti, produttività. Elaborazione Mondo Economico su dati Istat
La figura 1 in proposito è piuttosto chiara, la crescita italiana non è basata sull’innovazione, vista la dinamica stagnante della produttività in valore (ossia del valore aggiunto reale per unità di lavoro): dal 2007 al 2020 l’economia italiana ha avuto un profilo degli investimenti reali addirittura negativo, ossia ha decostruito capitale produttivo e dal 2020 la dinamica degli investimenti è diventata positiva, ma più che altro per merito delle costruzioni realizzate con il finanziamento del bilancio pubblico. Se l’economia ha galleggiato è per l’eccezionale sforzo delle esportazioni, per il 95% manifatturiere, che tuttavia adesso sono in affanno, perché per due terzi l’export italiano è verso l’Unione europea, con la Germania e la Francia i due primi clienti. Si tratta però di clienti che sono il primo in quasi-recessione e il secondo che ci potrebbe finire non appena la scure fiscale taglierà le spese e aumenterà le tasse nel 2025, in modo piuttosto violento. 
Figura 2 – Crescita percentuale annuale del Pil suddivisa per i suoi contributi della domanda finale. Elaborazione Mondo Economico su dati Istat
Se si osserva la figura 2, si vede che il calo della crescita del Pil italiano non è affatto una novità. Il rimbalzo post pandemico dei consumi (una sorta di revenge spending dopo la pandemia) è finito da un paio di trimestri. Gli investimenti hanno ridotto la spinta in attesa del Pnrr, in costante ritardo, e il traino delle esportazioni non c’è più. In altri termini, alle esportazioni in questa congiuntura è già tanto chiedere di “tenere”, quasi impossibile invece “aumentare” il suo contributo.La conseguenza immediata della “crescita zero senza virgola” è che la manovra economica potrebbe essere insufficiente e con le nuove regole europee non si scherza. In caso di insufficienza non valgono le “una tantum”, il patto richiede interventi strutturali, ossia aumenti di entrate o riduzioni di uscite permanenti e non provvisorie. La conseguenza meno immediata è che possiamo tranquillamente archiviare l’idea che “dopo la pandemia” sia tornato il miracolo economico. Per produrre crescita sostenuta nel medio periodo occorre tornare agli strumenti tradizionali: quelli degli investimenti e dell’innovazione. Due vocaboli nei quali l’Italia non si è mai espressa al suo meglio, e negli ultimi venti anni per la verità è sembrata piuttosto balbuziente.