Il commercio elettronico è in grandissima forma. Negli ultimi dieci anni - complice anche la pandemia - ha visto crescere di almeno dieci volte il volume delle vendite. Un esempio su tutti: nel 2021 le vendite di Amazon a livello globale hanno superato i 450 miliardi di dollari e in otto Paesi europei, Italia inclusa, il colosso del retail online ha incassato oltre 50 miliardi di euro. Ma è solo la punta dell’iceberg. L’attività di delivery o consegna a domicilio - esplosa anche nel segmento food - registra una accelerata senza precedenti e non sembra destinata a rallentare. Il nostro Paese non sfugge a questo trend. Secondo uno studio di Netcomm (Consorzio del Commercio Digitale), in collaborazione con The European House-Ambrosetti, la rete del valore dell’e-commerce e del digital retail in Italia genera ricavi per circa 58,6 miliardi di euro, ha un impatto del 19,2% sulla crescita di fatturato del totale delle attività economiche italiane e solo nel 2021 raggruppava 723 mila imprese.

È il pianeta della sharing economy. Che ha cambiato le regole del mercato e la vita dei consumatori. Certo, per velocità e comodità il delivery soddisfa appieno i nuovi bisogni delle persone, ma provoca anche ricadute negative sul territorio: contrazione delle vendite nei piccoli negozi e nel commercio di prossimità, congestione del traffico, aumento dell’inquinamento ambientale e acustico.

Da anni si discute di applicare a questi colossi tasse green o eco-contributi anche per il ridotto apporto in termini di imposte pagate. È illuminante in questo senso la recente analisi di Mediobanca sui bilanci dei primi 25 colossi mondiali di software e web con ricavi superiori a 12 miliardi di euro: 9 operano nell’e-commerce, 3 nel transport & food delivery. Grazie al fatto che metà dell’utile prima delle imposte viene tassato in Paesi a fiscalità agevolata, nel triennio 2019-2021 queste 25 big companies hanno registrato un risparmio fiscale di 36,3 miliardi di dollari.

Di fronte a queste evidenti contraddizioni finanziarie, fino ad oggi in Europa si sono affastellate solo chiacchiere e proposte rimaste lettera morta. Ma in fondo al tunnel ora si vede una luce. E la luce arriva dalla Spagna. Il consiglio comunale di Barcellona ha approvato lo scorso febbraio una tassa che entrerà in vigore in queste settimane di marzo. La tassa è già stata ribattezzata “Amazon Tax” e il Comune la imporrà a 26 compagnie di delivery che operano in città e che superano un milione di euro di fatturato annuo come Amazon, Dhl, Ups, Seur, Correos Express, Mrw. Cinque di queste società coprono il 62% delle consegne totali.

Si tratta di una aliquota dell’1,25% sui ricavi delle compagnie ed è stata definita dopo un calcolo sull’occupazione dello spazio pubblico e sul fatturato delle aziende. Interessante capire come sono stati realizzati questi calcoli dagli economisti della capitale della Catalogna. Che prezzo dare, per esempio, all’uso dello spazio pubblico? È presto detto: il calcolo si è basato sul costo di utilizzo di un parcheggio blu o verde e un tempo di occupazione, il 5% del totale possibile.

La tassa sarà applicata anche nel caso in cui le aziende subappaltino l’attività ad altre imprese o a lavoratori autonomi ma sarà pagata dall'operatore principale delle consegne. Nel caso di gruppi di aziende, sarà l'azienda con il fatturato annuo più alto a pagare. Non vengono dunque tassati consumatore finale, piccolo fattorino autonomo, consegne nei punti di ritiro come negozi o biglietterie. L’importo da pagare da parte del gruppo di operatori non potrà superare i 2,6 milioni di euro all’anno.

Gli amministratori di Barcellona l’hanno definita una “tassa pioneristica per regolare l’uso dello spazio pubblico” e per evitare il dominio di alcune piattaforme, sostenendo concretamente il tessuto commerciale locale. Dunque, l’obiettivo è riportare equilibrio nella concorrenza, garantendo ai piccoli commercianti condizioni fiscali uguali a quelle delle grandi strutture digitali, e ridurre l’impatto negativo sulla congestione del traffico e sull’inquinamento causato dall’aumento delle consegne di pacchi a domicilio che saturano lo spazio pubblico. Nel presentare questa novità, il sindaco di Barcellona Ada Colau, ha sottolineato che ci troviamo di fronte a «modelli commerciali insostenibili sia in termini sociali che ecologici. Per effettuare massicce consegne a domicilio, le grandi aziende di e-commerce riempiono le città di auto, congestionando le strade, inquinando l'aria e mettendo a rischio il commercio locale. Il loro modello si basa su un lavoro per lo più precario e spesso non pagano nemmeno le tasse dove operano». L’aliquota dell’1,25% ha richiesto oltre tre anni di lavoro. Un iter complesso anche per mancanza di precedenti e sostenuto dall’organismo europeo Erc, European Research Council.

È indubbio che ci troviamo di fronte ad una tassa innovativa, finora mai applicata in altre città spagnole o Paesi europei, che offre una risposta locale ad una sfida globale. Oggi può sembrare una piccola goccia nell’oceano ma velocemente potrebbe diventare apripista e imporsi in altre città a difesa di attività economiche compatibili con sostenibilità, transizione digitale e tassazione più equa. L’urgenza di giustizia fiscale e mobilità locale ecologica si fa sentire d'altronde da tempo dentro molte amministrazioni. Per esempio a Parigi dove da mesi si fa strada l’ipotesi di un eco contributo di pochi centesimi a pacco. Oltreoceano, in Colorado, lo scorso luglio è stata invece approvata una tassa di 27 centesimi su tutte le consegne su strada che dovrebbe generare un introito per le casse statali di circa 1,2 miliardi di dollari nel prossimo decennio. Soldi che andranno a incrementare gli investimenti per progetti stradali locali e per accelerare la transizione verso i veicoli elettrici.

E nel piccolo giardino di casa nostra? Qualcosa si muove? In realtà ben poco. Per ora il governo Meloni ha rinunciato alla tassa verde o Amazon Tax. La legge di Bilancio varata lo scorso novembre avrebbe dovuto contenere un tributo sulle consegne effettuate con mezzi inquinanti, non elettrici, non ibridi. Ma il polverone sollevato ha convinto tutti a desistere. Ora però Barcellona apre nuove possibilità e lancia la palla dentro le singole amministrazioni comunali. L’esperienza spagnola può fare scuola e diventare un modello replicabile.