«In Italia la strada è dell’automobilista. La prova? Il pedone che lo ringrazia per averlo lasciato attraversare sulle strisce. Bisognerebbe proprio cambiare cultura, ma manca la comunicazione. E così resta difficile correggere anche una sproporzione. Da noi l’80 per cento dello spazio di una strada, tra corsie per il transito e lati per la sosta, è dedicato all’auto. Basterebbe riequilibrare: 40 per cento alle vetture, 40 per cento ai pedoni e ciclisti e il 20 per cento che rimane al verde».
Matteo Dondé, architetto e urbanista, è considerato il “papà” della zone trenta in Italia. C’è la sua firma dietro questa rivoluzione negli spazi cittadini in molte città: da Reggio Emilia a Brescia a Olbia, per citarne alcune.
Architetto, eppure le zone 30 sono viste con diffidenza anche dai pedoni. Perché?
«Semplice. Perché nessuno ha spiegato loro i vantaggi di una simile operazione. E quindi il limite alla velocità è letto solo come un divieto che si aggiunge. La gente deve toccare con mano i vantaggi. Le faccio l’esempio di Graz. Nel ’92 quando nella cittadina austriaca furono istituite le zone 30 l’80 per cento degli abitanti era contrario. Due anni dopo quel giudizio si era completamente ribaltato. Otto cittadini su dieci erano favorevoli alla novità».
Quindi è soprattutto un difetto di comunicazione?
«Assolutamente sì. Nessuno racconta mai alla gente che cosa sono davvero le zone 30, quali vantaggi portano. E quando se ne parla è per trasformare il discorso in un conflitto, una disputa da bar: automobilisti contro resto del mondo. Tante opinioni e pochi dati. Ma non è così. Migliorando la mobilità ci sono vantaggi per tutti: ciclisti, pedoni e anche automobilisti. Che invece restano imprigionati nelle loro vetture. Roma dopo Bogotà è la città più congestionata al mondo e in questa poco invidiabile classifica al settimo posto figura Milano. D’altronde abbiamo il doppio delle auto rispetto alle altre grandi città europee. Così la velocità media è sotto il limite dei 30: ci si muove tra i 18 e i 20 chilometri orari. Si corre tra un semaforo e l’altro e poi ci si trova inchiodati davanti al rosso o all’incrocio».
Comunque adesso le zone 30 sembrano far breccia anche in Italia: Bologna, Milano, Torino. Non è positivo?
«Si, anche se ci arriviamo molto dopo il resto d’Europa. Tutto è iniziato più di mezzo secolo fa ad Amsterdam. Nel 1969 un intero quartiere si ribellò contro i troppi bambini investiti e uccisi dalle auto. Ci furono proteste anche violente, con vetture bruciate. Ma da quella scintilla nacque un altro disegno delle strade, l’idea di restituirle ai cittadini. Oggi abbiamo un paese come la Spagna che da due anni nel codice della strada impone le zone 30 in tutte le città salvo sulle strade a quattro corsie e un altro, l’Olanda che va nella stessa direzione, manca il voto finale. Insomma la moderazione del traffico che ha avuto nell’architetta svizzera Lydia Bonanomi la teorica è un dato di fatto in mezza Europa. Solo da noi c’è ancora tanta diffidenza».
Dunque è innanzitutto una questione di sicurezza?
«Sì, certo, il progetto nasce proprio per questo. E infatti in tutte le città dove le zone 30 sono già realtà gli incidenti sono in costante calo mentre in Italia accade l’opposto, come confermano i nove morti al giorno sulle strade. Ormai gli incidenti nelle nostre città sono il triplo rispetto alle altre aree urbane europee. Ma fermarsi sulla sicurezza sarebbe riduttivo pur nell’importanza del risultato. Le zone 30 nascono anche per cambiare paradigma, restituire le strade ai pedoni e ai ciclisti, consentire loro di muoversi liberamente senza il pericolo di essere investiti. Insomma, cambia la qualità della vita con più marciapiedi e più verde. Anche per commercianti e esercenti».
Quanto costa realizzare una “zona 30”?
«Di sicuro meno di quanto ci costano gli incidenti stradali che ogni anno avvengono in Italia: 17 miliardi pari a un punto di Pil. Si può partire comunque a basso costo, limitandosi come ha fatto Barcellona con le “superilla” a una serie di sensi unici per impedire che la gente attraversasse i quartieri residenziali. Oppure si decide di farne un progetto di qualità. E allora a dossi, sensi unici, semafori, strettoie aggiungiamo altri elementi che migliorano la vita del quartiere. E così, per esempio, restituiamo piazze bellissime a lungo usate come parcheggio alla loro vera funzione: un luogo di incontro».
Le zone 30 sono di destra o di sinistra?
«Ecco, questo è l’errore proprio da evitare. Spesso si parte dall’idea che la bici sia di sinistra e l’auto di destra. Ma la prima città italiana che ha adottato il limite è stata Olbia, guidata da una giunta di centrodestra. E lo stesso accade nel resto d’Europa dove amministrazioni di colore diverso hanno adottato lo stesso provvedimento. Proprio perché le zone 30 non hanno colore, sono solo un modo migliore di intendere la vita. Un atto di civiltà»..
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