Si può fare filosofia in molti modi. Scegliamo il più classico, quello espresso in Gorgia, uno dei dialoghi più noti di Platone: nella parte finale, la terza, come in un vero e proprio incontro di boxe si scontrano il filosofo per eccellenza – Socrate – e Callicle, il politico per eccellenza e – a detta di Socrate stesso – un vero interlocutore alla pari. Il tema è quale vita sia degna di esser vissuta, espresso nella domanda: «Come vivere il tempo che abbiamo in modo che la nostra vita sia la migliore possibile?».

Socrate argomenta le proprie tesi, alla perfezione come solo lui sa fare, usando la dialettica e l’ironia, dimostrando quanto sia povera una vita dedita alla conquista del potere e non, invece, basata sulla giustizia. Ma ciò che qui importa non sono i temi del Gorgia, né le qualità morali dei suoi protagonisti. Sono i toni, i toni e i modi, di Socrate e di Callicle, del filosofo e del politico.

La disputa tra filosofia e politica

Toni e modi spesso rivelano caratteri, e in questo caso sono cruciali per spiegare quel che succede a un certo punto della disputa tra filosofia e politica. Un fatto inedito, e che non si ripeterà in alcun altro dialogo platonico: Callicle, la “pietra di paragone”, di Socrate e della filosofia, se ne va. Abbandona la scena, il dialogo, lasciando il filosofo lì, da solo, solo con le sue argomentazioni. Il suo ritiro è polemico e cruciale per comprendere – oggi, a distanza di più di duemila anni - il matrimonio mancato tra filosofia e vita comune.

Callicle se ne va perchè Socrate ha commesso un errore fatale, rifiutando l’iniziale invito di Callicle ad ascoltare «la dolce musica delle azioni», rifiutandosi cioè di ascoltare la vera voce della politica, della polis, della città. Quale che fosse. Socrate ha vinto il suo confronto dialettico, ma non ha persuaso Callicle, non ha persuaso la polis. Se ci si ritrova da soli a parlare, si può davvero dire di aver vinto?

Vittoria o fallimento, quindi?

Perché, in tutta evidenza, qualcosa in quella storia è andato storto.

Raffaello - La scuola di Atene (1509-1511 circa)

Una questione di fiducia e di responsabilità

In una lontana intervista, Salvatore Veca rispondeva così alla domanda su chi fossero gli intellettuali, e su quale ruolo avessero/dovessero avere: «L’esercizio della funzione intellettuale, come usava dire Umberto Eco, subisce variazioni e metamorfosi dovute al mutamento del paesaggio sociale. Sia i modi di esercizio del potere sia la fisionomia dell’opinione pubblica sono drasticamente mutati rispetto ai modelli ereditati dal secolo alle nostre spalle, in cui la funzione intellettuale ha avuto un ruolo perspicuo sia nei confronti del potere sia nei confronti dello spazio pubblico. Non ho una visione apocalittica, in proposito. Penso solo che chi sia dedito alla professione o, meglio, alla vocazione intellettuale debba oggi abbozzare il proprio gesto di “teoria” come un gesto semplice, elementare e responsabile, di autonomia».

Semplice, elementare, responsabile, autonoma.

La filosofia dovrebbe essere così. Distanza, diffidenza, decostruzione delle certezze assodate, infezione di perplessità, lavoro di disturbo (il tafano socratico, il pesce paralizzante)? Sì, certo, anzi necessario. Sono qualità sufficienti? Per vivere su Marte sì. Ma noi siamo terrestri, che vivono vite sempre più private (in tutti i sensi), purtroppo sempre meno consapevoli che sono – al contrario – proprio le nostre vite e questioni pubbliche a definirci e a garantirci sopravvivenza.

Noi siamo anche un tipo di esseri che non possono fare granchè senza fiducia.

E la fiducia è come un semaforo, presuppone veridicità negli atti di comunicazione tra i parlanti, senso di responsabilità e un impegno di tipo universalistico. Vi sono questioni pubbliche, come un vaccino. E, se è vero – come sostiene John Stuart Mill - che ogni soppressione della discussione pubblica è una presunzione di infallibilità, è altrettanto vero che esprimere un punto di vista – per quanto filosoficamente ben argomentato o scientificamente supportato – con modi e toni dogmatici, rappresenta, dal punto di vista della comunicazione e della fiducia tra le persone, un fallimento su tutta la linea.

Le sciocchezze dei filosofi

Oltre a dubbi e precauzioni, al di là di critiche e ripensamenti, forse anche prima di questi,  la filosofia forse dovrebbe riuscire a trovare e a far ritrovare quella connessione civico-politica che ci rende, appunto, terrestri e non marziani. Ma come?

Tito Boeri e Roberto Perotti (Repubblica, 21 dicembre 2021 Le sciocchezze dei filosofi) hanno ragione: prendere posizioni nette sulla pandemia senza conoscere la statistica è un atto professionalmente suicida e socialmente devastante. Ma anche Gianfranco Pellegrino (Il Mulino on line, 24 dicembre 2021 – Vizi intellettuali e autocontraddizioni nascoste) ha ragione: l’insistenza sui dati scientifici e sulla loro critica, o sulla loro difesa, fa perdere di vista altre dimensioni di pensiero e di discussione pubblica. Proprio chi è consapevole del valore dei dati scientifici dovrebbe rendersi conto anche dei loro limiti e ammettere che ci sono spazi di discussione che sono inevitabilmente politici, e non scientifici.

In un mondo di connessioni virtuali, come trovarne di davvero autentiche, e responsabili?

La resilienza (quella vera)

L’immagine che segue è la locandina di un film: Il voto è segreto (Babak Payami, 2001 - Payam Films, Fabrica Cinema, Sharmshir).

Fonte: Solaris Distribution

Nell’isola di Kish sul Golfo Persico, paesaggio arido e mare meraviglioso, nel giorno delle elezioni piomba dal cielo, paracadutata da un aereo, un’urna elettorale, e arriva alla spiaggia con una barca a motore il responsabile del seggio mobile, che con una sua urna di polistirolo dovrà raccogliere i voti degli elettori dispersi nella zona.

Il responsabile è una responsabile e, scortata da un soldato, andrà in giro ovunque sull’isola alla ricerca dei votanti: donne che non vogliono o non possono votare senza il permesso dei mariti assenti; elettori diffidenti, sfiduciati o portati a contrattare il voto; votanti Sunniti ai quali il voto è vietato dalla religione (ma forse non intendono votare per gli Sciiti che li perseguitano); contrabbandieri raggiunti per il voto in alto mare; votanti che non vogliono dare il loro suffragio ai candidati della lista bloccata ufficiale. La giovane donna, con tenacia, bravura e coraggio, insiste, spiega, chiarisce, illustra le regole d’una democrazia alquanto mutilata. Alla fine della giornata se ne va, sull’aereo che è venuto a prenderla: tornerà magari tra quattro anni, alle prossime elezioni.

Il semaforo rosso nel deserto

Ho sempre interpretato quell’immagine di locandina – che sintetizza alla perfezione il messaggio del film – come una rappresentazione surreale e satirica di un tema socio-politico serio: una donna e un uomo, in auto, in pieno deserto, fermi di fronte a un semaforo rosso. Che sciocchezza obbedire a un semaforo rosso in pieno deserto, pensavo.

Solo ora, dopo Covid-19, ho capito il senso di quella scena: anche in un deserto si possono costruire valori.

A volte il nostro impegno deve andare verso il mondo, prima che verso noi stessi. Questo vorrei che mi insegnasse una filosofia pubblica. Anzi, civile.