Prima di tutto imprenditore o dirigente, poi influencer e solo dopo, al livello più basso, operaio o contadino. Il valore sociale del lavoro manuale è in forte declino; lo si capisce non solo guardando il festival di Sanremo, dove trionfa il nulla e viene celebrata l’apparenza di una immagine, ma anche andando a sondare quel che la popolazione italiana pensa.
Come ha fatto l’indagine – circa 1.200 i soggetti del campione coinvolto - sull’industria e sul lavoro rivolta alla popolazione, promossa da Federmeccanica, progettata e realizzata da Community Research&Analysis, curata dal professor Daniele Marini, esperto di Sociologia dei processi economici all’Università di Padova. Ne emerge come nella scelta di un’occupazione prevalgono gli aspetti immateriali, rispetto a quelli strumentali. E allo stesso tempo si assiste al declino del valore sociale del lavoro manuale: così, in fondo alle classifiche del lavoro sognato troviamo professioni come l’operaio e il contadino, superati da influencer, in cima dirigenti e imprenditori.
Inoltre, se circa la metà delle persone occupate intende cambiare lavoro prossimamente (in gran parte per aumentare il reddito), la maggioranza di chi vuole cambiare lo farebbe per conciliare il tempo di vita lavorativa con quello familiare. E, benché facciano notizia le adunate oceaniche dei concorsi pubblici, la grande maggioranza degli interpellati (74,7%) ritiene che le opportunità di crescita professionali siano maggiori in un’impresa del privato, piuttosto che nel settore pubblico (25,3%). Così come per la valorizzazione dei propri talenti lavorativi la maggior parte ritiene che si possano realizzare mettendosi in proprio (55,4%) piuttosto che con un lavoro alle dipendenze (44,6%). Anche se la propensione al lavoro autonomo è più accentuata tra gli adulti (59% oltre i 50 anni) mentre un’occupazione dipendente attrae i più giovani (49% fino a 49 anni). Ma soprattutto un lavoro sempre più caratterizzato da fattori strumentali (benefit e incentivi economici, vicinanza a casa del lavoro, poter lavorare da casa) che si combinano ad altri di natura qualitativa (work-life balance, l’attenzione delle imprese per il sociale). Un lavoro quasi tailor made sui singoli soggetti.«Un altro aspetto importante – spiega Daniele Marini - attiene ai valori simbolici attribuiti al lavoro.
Ciò che conta in misura maggiore nella scelta di un’occupazione sono gli aspetti considerati “immateriali”, rispetto a quelli “strumentali”. Sia chiaro, ciò non significa che non si presti più attenzione al salario, alla sicurezza del posto di lavoro e alle condizioni di sicurezza nel lavoro. Che, anzi, quest’ultime risultano al primo posto dei criteri nella scelta di un’occupazione. Tuttavia, gli aspetti soft hanno un peso e una valenza che complessivamente supera quelli considerati hard. Al punto tale che, a parità di condizione, i primi diventano discriminanti nella scelta di un’occupazione. Tanto che oggi il lavoro diventa in misura crescente una “scelta” non più soltanto una “necessità”.
Se poi analizziamo i lavori più ambìti, in vetta alla classifica troviamo i profili del dirigente e dei manager (82%) e dell’imprenditore (72,3%), seguite dai liberi professionisti (56%). Più staccati influencer e blogger (43,6%) e insegnanti (42,8%). In fondo nella valutazione sociale gli artigiani (34,7%), gli impiegati (32,8%), i commercianti (31,5%), i contadini (24,7%), gli operai (20,8%) e i commessi (18,4%). Di fatto, le figure che hanno dato sostanza allo sviluppo economico italiano, come il contadino, l’operaio, il commerciante oggi sono crollati dal punto di vista dell’appeal così come è crollata come l’importanza del lavoro manuale. ”Si tratta – spiega Marini - di differenze generazionali evidenti: in particolare, agli occhi dei “figli” le figure professionali soprattutto come il contadino, un po’ meno l’operaio, hanno decisamente un prestigio largamente inferiore rispetto a quello che i “padri” conferiscono. Così come lo stesso libero professionista e l’insegnante»
Complessivamente il 54,8% degli italiani risulta in condizione attiva sul mercato del lavoro. All’interno di questo universo, il 65,5% ha un lavoro continuativo, il 19,8% è occupato in modo saltuario e flessibile, il 14,4% è disoccupato oppure si trova in Cassa Integrazione o in mobilità. Scendendo maggiormente nel dettaglio, la componente maschile è decisamente più impegnata con un lavoro continuativo (47,8%), rispetto a quella femminile (24,9%), mentre non si registrano particolari differenze in relazione alla flessibilità lavorativa o alla condizione di disoccupazione/cassa integrazione.
Viceversa, la condizione di casalinga è praticamente patrimonio esclusivo delle donne (27,3%, fra i maschi solo lo 0,2% dichiara di trovarsi in questa situazione). I pensionati costituiscono il 26% degli interpellati, senza significative differenze fra i generi.
L’indagine si è occupata anche del fenomeno della cosiddetta “fuga dal lavoro”: anche se prevale chi non ha intenzione di fare una simile scelta (54,9%), ben il 45,1% esprime l’intenzione di cambiare. Il 15,7% manifesta l’intenzione di dimettersi anche senza avere un’altra offerta di lavoro. Fra questi, appare più propensa la componente femminile (18,2%), le generazioni più giovani (22,2% fino a 34 anni) e i giovani-adulti (19% tra 35-49 anni), chi ha una qualifica professionale (17,5%) o un diploma (16,4%), quanti svolgono una mansione manuale (19,2%) o fanno un lavoro autonomo (17%), i lavoratori del Centro (19,1%) e del Mezzogiorno (16,9%). Il motivo principale della scelta di cambiare la propria occupazione è quello di aumentare la retribuzione percepita (34,8%). Seguono il miglioramento della propria salute fisica e mentale (19,6%), avere maggiori possibilità di progredire nella crescita professionale (13,6%), assieme alla flessibilità nell’organizzare l’orario di lavoro e quindi migliorare il proprio work-life balance (13,1%).
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