Un virus e le sue varianti, diciotto mesi trascorsi dall’esordio della pandemia, 3 milioni e mezzo di decessi, una decina di vaccini autorizzati. Eppure ancora poche certezze a fronte di un numero sempre crescente di domande.
Anche la disciplina delle Relazioni Internazionali, naturalmente, non ha potuto esimersi dal fare quello che non sempre bene le riesce: interrogarsi sul futuro.
Fare previsioni è una tentazione irresistibile per la materia, specialmente davanti a quelli che potrebbero rappresentare veri e propri snodi cruciali della storia; momenti che segnano una svolta decisiva nei modi e negli spazi della convivenza internazionale. Episodi rari, ma capaci di sovvertire, senza possibilità di ritorno, l’ordine preesistente. Certo riconoscerli non è cosa ovvia e, infatti, anche l’opinione degli esperti si divide inesorabilmente quando chiamata a esprimersi sugli esiti di lungo periodo della presente crisi, a tutti i possibili livelli di analisi: ordine globale, conflitti regionali, competizione tra le grandi potenze, economia, (dis)informazione, stabilità politica, diplomazia, difesa e molto altro ancora.
Per alcuni, il lascito del Covid non potrà essere accomodato nell’ambito del precedente assetto internazionale. La crisi avrà segnato il passaggio definitivo dalla prima alla seconda fase della globalizzazione, il naufragio del modello democratico liberale, la transizione dal secolo americano a quello asiatico, rappresentando per gli Stati Uniti quello che il 1956 è stato per il Regno Unito, un certificato di negligenza e incompetenza.
Per altri, il Covid sarà solo l’ultimo e potente facilitatore di processi già in atto.
Dal declino americano, ai tentativi di ridimensionamento dell’interdipendenza economica (de-coupling e guerre commerciali), alla ribalta di autoritarismi e populismi, il mondo era già diventato “meno aperto, meno libero, e meno occidentale” prima che del Covid, sostiene Stephen Walt, docente di politica internazionale alla Kennedy School of Government di Harvard.
Non troppo lontana l’opinione di chi ritiene persino che questa pandemia abbia interferito molto poco (sicuramente meno di altre in passato) su quelle variabili salienti, distribuzione di potere e interessi, che determinano la direzione in cui si muove il sistema internazionale. Tra gli altri così la pensa Daniel Drezner, Professore a Tuft e voce del Foreign Policy.
Con tali posizioni risuona bene il dietrofront della politica americana verso un orientamento decisamente più coerente con le aspettative della comunità internazionale, complice naturalmente la nuova amministrazione di Biden. Presidente, tra l’altro, che al Covid deve più di qualcosa.
Del resto, l’eventuale conferma di Trump, tutt’altro che da escludersi in assenza di una così palese débâcle nella gestione dell’emergenza negli Stati Uniti, avrebbe significato il consolidamento di tendenze già foriere di mesti presagi ben oltre i confini americani.
La disastrosa performance della cooperazione multilaterale, nei primi sei mesi dell’emergenza, è un paradosso: davanti ad un problema davvero globale, le principali misure per fronteggiare l’epidemia sono state adottate sul piano nazionale, quando non subnazionale.
Davanti all’iniziale reticenza della Cina ad informare la comunità internazionale, al modesto successo delle prime conversazioni in seno al G7 e al G20, al ripristino dei controlli alle frontiere in Europa, molto poco hanno potuto norme e istituzioni internazionali. Latitante un egemone convinto e pronto all’ingaggio, ognuno ha fatto per sé, con gran soddisfazione di realisti e affini per i quali, da sempre, i regimi internazionali altro non sono che il rassicurante ma fallace canto di una sirena (Mearsheimer nel suo notorio articolo del 1994, “The false promise of international institutions”).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e i suoi Regolamenti Sanitari Internazionali, che del regime che governa la salute pubblica globale sono in qualche modo epicentro, non hanno convinto: ritardi, mancanza di trasparenza, di indipendenza e di leadership, preparazione inadeguata sono solo alcune delle osservazioni avanzate dai nuclei di valutazione incaricati di stimare l’operato dell’Agenzia.
Certo ora (e fintanto) che l’“America è tornata”, il multilateralismo recupererà qualche punto.
Il Neopresidente non solo ha revocato, come promesso, la decisione del suo predecessore di lasciare l’OMS, riconoscendovi anzi un ruolo cruciale per la lotta al Covid-19 e contribuendo generosamente al piano COVAX, ma ha soprattutto confermato l’impegno americano a partecipare e a guidare la risposta alle presenti e future minacce alla sicurezza sanitaria.
Una buona notizia per la cooperazione internazionale? Certamente, ma meglio non saltare a conclusioni affrettate. Il Covid ha messo in luce l’inadeguatezza della governance globale, sollevato questioni di legittimità, e amplificato problemi per i quali semplici aggiustamenti gestionali potrebbero non essere sufficienti. Di questo Biden, che abita una Casa Bianca dove l’animo repubblicano è tutt’altro che silente, sembra essere consapevole. Allora non risparmia, Jen Psaki addetto stampa del Presidente, aspre critiche all’ultimo report rilasciato dall’OMS a seguito della missione in Cina volta a investigare l’origine dell’epidemia. Un documento definito “parziale e incompleto”. Multilateralismo sì, ma non senza vigilanza, direzione e riforme.
Ecco, quindi, che il potenziale dirompente del Covid riposa nel suo essere prima di tutto una “crisi”. Come tale, la pandemia è già stata preziosissima cartina di tornasole non solo dei limiti operativi degli apparati istituzionali nazionali e internazionali che tale crisi avrebbero dovuto evitare o mitigare, ma anche e soprattutto delle più profonde contrapposizioni valoriali, incongruenze, fratture e diseguaglianze a causa delle quali la crisi non poteva essere, in effetti, evitata (per una bella riflessione teorico-storica sul fenomeno delle crisi internazionali si veda: Alessandro Colombo, Tempi decisivi, Feltrinelli 2014).
Catastrofe o opportunità? Staremo a vedere.
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