Proprio sul finire della legislatura europea, e alla vigilia del semestre di presidenza UE, l’Italia rischia di essere esposta alle conseguenze politiche ed economiche di una procedura di infrazione ad opera della Commissione Europea, per via del mancato rispetto della direttiva 2011/7/UE sui tempi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni. Ma il problema non era risolto?
1. Una parte della crisi italiana consiste - com’è noto - nella carenza di liquidità delle imprese, che rende impossibili nuovi investimenti e costringe le imprese, nella migliore delle ipotesi, a vivacchiare in attesa di tempi migliori, e nella peggiore a ridimensionarsi o a chiudere. La carenza di liquidità ha a sua volta origine nella permanente grande difficoltà di accesso al credito: anche per via della necessità di ottemperare agli obblighi di Basilea III, gli istituti bancari ormai da diversi anni erogano prestiti alle PMI con notevole difficoltà.
Ma la carenza di liquidità ha anche un’altra componente, ovvero il problema del ritardo dei pagamenti alle imprese da parte sia di altre imprese, sia delle pubbliche amministrazioni nazionali e locali. Circa un anno e mezzo fa, su queste colonne Riccardo Viriglio si era occupato del problema, illustrando nel dettaglio l’evoluzione della normativa in argomento, dopo che lo stesso Viriglio aveva curato per il Centro Einaudi un approfondito studio sul tema, contribuendo altresì con una proposta di decreto legislativo al dibattito che ha preceduto l’attuazione, da parte del governo italiano, degli obblighi derivanti dalla direttiva 2011/7/UE.
In effetti, con il decreto legislativo n. 192/2012, l’allora governo Monti aveva dato attuazione agli obblighi in questione, in anticipo sul termine finale di scadenza della direttiva europea: il decreto fu allora presentato all’opinione pubblica come l’agognata soluzione definitiva di un problema molto grave per le piccole e medie imprese italiane.
Così, di pagamenti alle imprese si parlò abbastanza poco durante la campagna elettorale di inizio 2013: la questione era affrontata dal programma di alcuni partiti, ma il problema sembrava finalmente avviato a rientrare, per effetto delle nuove norme approvate sulla spinta dell’UE.
2. Oggi, a poco più di un anno di distanza dall’entrata in vigore delle nuove norme (cui si sono subito aggiunte una circolare del Ministero dello Sviluppo Economico del 23 gennaio 2013, nonché una delibera della Corte dei Conti del 14 marzo 2013), è possibile fare un bilancio di quanto esse siano riuscite a sbloccare una situazione che si era ormai realmente incancrenita. Tralasciando i pagamenti tra privati, l’intervento sui quali pone questioni di libertà contrattuale e su cui comunque sembrano esserci al momento meno dati disponibili, due dati recenti consentono di valutare quanto sia in via di soluzione il ritardo accumulato dalle pubbliche amministrazioni nel saldare i propri debiti nei confronti delle imprese.
In primo luogo, ha destato un certo scalpore per l’appunto l’annuncio da parte del Commissario italiano Antonio Tajani dell’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia (addirittura con procedura accelerata, vista la gravità della situazione) per mancato rispetto della direttiva 2011/7. In effetti, a differenza di molti altri casi, come detto, questa volta l’Italia non aveva lasciato scadere il termine per l’attuazione dell’obbligo europeo, e aveva approvato un apposito decreto legislativo. Ma com’è agevole comprendere, alle istituzioni europee questa attuazione formale non è bastata: ciò che conta, per Bruxelles, è la sostanza.
E quale sia il dato sostanziale ce lo rivela l’altro elemento di novità emerso in questi giorni, ovvero un rapporto dell’Ufficio Studi e Direzione Politiche economiche di Confartigianato dedicato proprio a “L'applicazione da parte della P.A. della Direttiva 2011/7/UE sui ritardi di pagamento”. La fotografia che ne emerge è sconfortante: le pubbliche amministrazioni italiane sono le peggiori pagatrici d’Europa, impiegando in media ben 170 giorni, contro i 61 della media europea, già a sua volta più che doppia rispetto al termine massimo consentito dalla direttiva (30 giorni come regola, salvo un’estensione a 60 in situazioni eccezionali).
Il ritardo ha un effetto particolarmente marcato in Italia, dove il debito commerciale delle P.A. è il più elevato in rapporto al PIL (4%) di tutta Europa (questo dato fornisce così anche una valutazione dell’ammontare complessivo di tale debito, un dato per molto tempo incredibilmente immerso nel mistero). Lo studio di Confcommercio ha peraltro stimato anche l’impatto di un ritardo tanto elevato nel saldare cifre così elevate, calcolando che le imprese italiane hanno dovuto affrontare maggiori oneri per circa 2,1 miliardi di euro, per reperire presso il sistema bancario risorse liquide che non sono riuscite a vedersi riconosciute dalle pubbliche amministrazioni loro debitrici.
Il piano di pagamento dei debiti pregressi avviato sul finire del 2012 non sembra dunque aver raggiunto, purtroppo, gli obiettivi auspicati. Se già l’esperienza delle certificazioni dei crediti era stata ritenuta “un flop” da parte imprenditoriale, i pagamenti effettuati nel corso del 2013 non hanno smaltito l’arretrato: risulta effettivamente pagato meno dell’80% delle risorse complessivamente stanziate per il 2013, là dove peraltro questa media nasconde casi di amministrazioni che hanno raggiunto il 100%, a fronte di altre che invece sono molto indietro (tra i settori più colpiti, vi è quello sanitario, con meno del 20% dei debiti dell’SSN saldati a favore dei fornitori).
Infine, un segnale preoccupante della difficoltà delle pubbliche amministrazioni deriva da un questionario sottoposto alle imprese nelle scorse settimane: più di una su otto ha denunciato condotte dilatorie delle P.A., come richieste di emissione ritardata o di riemissione di fatture, o contestazioni pretestuose, al solo scopo di allungare i tempi.
3. Cosa può accadere ora con la procedura di infrazione? Può essere lo strumento finalmente idoneo a raddrizzare questo grave scenario? Purtroppo, occorre evitare facili illusioni. La procedura di infrazione intrapresa dalla Commissione è al più uno strumento di coercizione indiretta nei confronti degli Stati Membri: il deterrente di una sanzione economica anche pesante (Tajani l’ha quantificata in un anno di IMU, verosimilmente prima casa) può esercitare nei confronti del governo un pungolo per intervenire, ma di per sé non può essere risolutiva.
In effetti, l’Italia vanta molteplici primati negativi anche per quanto riguarda l’attuazione del diritto europeo e le conseguenti procedure di infrazione, ma ciò non è mai sembrato preoccupare più di tanto i nostri governi. Piuttosto, viene da pensare che il problema stia nel fatto che le risorse in questione mancano, altrimenti, al netto degli intoppi burocratici, non vi sarebbero particolari ostacoli nel procedere con misure certamente popolari presso l’opinione pubblica e in grado di incontrare un ampio consenso bipartisan anche in ambito politico, anche alla luce dei benefici effetti di attenuazione della morsa del credit crunch.
Stupisce, da questo punto di vista, che nel cosiddetto Jobs Act elaborato dalla squadra di Matteo Renzi manchi un accenno alla questione dei ritardi dei pagamenti alle imprese. Tra le misure in grado di rilanciare l’occupazione, infatti, il saldo dei debiti pregressi della P.A. potrebbe avere un significativo impatto in tempi ragionevolmente brevi, prima che possano manifestarsi gli effetti delle pur necessarie riforme strutturali.
Il Jobs Act è stato espressamente presentato come un work in progress, aperto ai contributi di studiosi e società civile: la sua versione definitiva ne guadagnerebbe dall’offerta di una soluzione rapida e praticabile di questo problema ormai da troppo tempo insoluto. Certamente, l’esperienza dell’attuazione della direttiva 2011/7 insegna che non basterà l’approvazione di una ipotetica nuova legge, ma occorrerà piuttosto la volontà politica di dare attuazione agli obblighi già oggi esistenti in capo alle pubbliche amministrazioni di ogni livello.
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