In questi giorni di inizio anno, tra le vacanze appena trascorse e la ripresa del lavoro, la crisi climatica ed ambientale sembra ancora più evidente agli occhi di molti: una verità scomoda, ma che dobbiamo accettare, una questione urgente che (tra l’altro) interessa da vicino un settore dell’economia fondamentale per l’Italia come quello del turismo.

Un problema, certo, ma che può e deve diventare un’opportunità per ripensare il nostro modo di vedere il turismo e forse, più in generale, un’occasione per cambiare il nostro punto di vista, rivedendo in modo radicale le relazioni tra città e territorio, tra uomini e ambiente e ripensando il concetto stesso di paesaggio: una fondamentale risorsa della nostra economia, che deve essere inteso in modo ampio, come quello “spazio” che tiene insieme da millenni le attività dell’uomo, tra natura, casa, lavoro, mobilità, arte, tempo libero. Un’occasione per mettere al centro i territori di margine, che proprio il turismo ci porta spesso ad apprezzare, ma che vediamo davvero solo per pochi giorni all’anno.

La situazione pare particolarmente critica per la montagna, tradizionale meta dei turisti per le feste di fine anno. Una crisi che ha toccato sia gli abitanti permanenti dei territori montani, che vivono (anche) di turismo, sia gli abitanti temporanei: quei “turisti” che stanno rientrando nelle città, delusi dalla mancanza di neve, nel ricordo di un tempo che forse non tornerà più.

Pnrr: quale strategia in una dimensione territoriale?

Si discute allora delle possibili soluzioni al problema, e ho letto con molto interesse l’intervento di Marco Bussone su queste pagine, dove si parla di trasformare, rigenerare, convertire gli impianti di risalita, cercando una visione che vada oltre modelli ormai non più sostenibili, trovando soluzioni adatte alle specificità dei territori e che ristabiliscano una migliore relazione tra le città, le aree urbane e le valli, l’Italia dei campanili. Nell’articolo si fa riferimento alla Legge di Bilancio del 2023, alla disponibilità di fondi importanti, e molti invocano il Pnrr, come lo strumento che garantirà ripresa e soprattutto resilienza, cioè la capacità di assorbire in futuro i colpi di situazioni di crisi. Che forse non potremo più considerare eccezionali, di emergenza, ma che dovremo imparare a considerare come permanenti e strutturali. Un quadro decisamente negativo.

Dal mio punto di vista, di studioso del territorio e di appassionato di montagna, credo sia importante ragionare su una strategia territoriale cercando di vedere la questione nel modo più ampio possibile, evitando di pensare solo a specifici territori (le terre alte) o su particolari settori (gli impianti di risalita, gli alberghi, la neve artificiale). Occorre estendere lo sguardo al territorio e cambiare il punto di vista, interrogandosi sul significato profondo di una parola come piano, che dovrebbe stare alla base anche del Pnrr, appunto: che dovrebbe innanzi tutto stabilire una strategia, fissare le priorità. E poi valutare gli effetti su un territorio più ampio. L’impressione è che si stia perdendo proprio la visione di un quadro complessivo, quasi storditi dalla quantità di risorse promesse, concentrandosi su interventi puntuali (il caso del finanziamento di 20 milioni al borgo di Elva, nel Cuneese, è emblematico, in questo senso).

Un modello da ripensare dopo 50 anni

Già prima dell’autunno, su queste stesse pagine, dicevamo che occorre pensare ad una transizione (dolce) verso un’altra industria del turismo in montagna. Dove non tutto ruoti attorno alla neve. Neanche d’inverno. Un modello diverso rispetto a quello che si è imposto negli ultimi cinquant’anni e che non può tuttavia essere realizzato dall’oggi al domani. Un cambiamento che deve avvenire secondo un modello che non annulli improvvisamente l’esistente, ma che lo adatti a nuove esigenze. Per non compromettere innanzitutto i posti di lavoro che oggi l’industria della montagna e dello sci in particolare ancora assicura”.

Pensando ad una analogia con un settore come quello del cibo, che più di altri ha saputo cogliere i cambiamenti in atto: non (solo) una cura dimagrante, ma un vero e proprio cambio di alimentazione, basato su un regime vario, con prodotti più giusti e più sani, che ci fanno stare meglio, in una filiera strettamente legata al territorio…e anche più buoni.

La dieta mediterranea, l'asso dell'alimentazione italiana

Occorre allora pensare ad una vera e propria strategia, che attribuisca davvero al Pnrr il valore che dovrebbe avere: quello di un “piano”. Che non riguardi la montagna, ma che si occupi del paesaggio; che non veda il territorio montano come un margine lontano, ma lo metta davvero al centro, come un luogo da dove guardare senza invidia le città e non come uno scenario di sfondo della vita urbana.

Quali servizi alle persone: un sistema phygital equilibrato

Merita consolidare un concetto ampio di benessere. Fornendo servizi alle persone: in primo luogo a vantaggio degli abitanti dei territori, che diventeranno più attraenti, accoglienti e anche più capaci di ospitare i turisti nel modo migliore.

Questo significa lavorare davvero sulle infrastrutture, quelle fisiche, materiali, delle reti della mobilità, insieme a quelle digitali, delle reti della comunicazione, dell’informazione e della conoscenza. Per fare un esempio, sul territorio che conosco meglio, quello che sta sotto l’arco alpino, tra Torino e Venezia, passando per Milano: recuperando innanzi tutto l’hardware già esistente delle numerose linee ferroviarie male utilizzate o persino dismesse che portano verso i territori che fanno da corona alle città. Basta qualche nome: Ormea, Limone, Torre Pellice, Ceres, Pré Saint Didier, Varallo, gli assi della valle di Susa e del Sempione, per arrivare fino alle valli delle prossime Olimpiadi di Milano- Cortina 2026.

Buone pratiche oltre le Alpi

Insomma, facendo tesoro dell’esperienza di Torino 2006 fino al 2026, abbiamo una straordinaria occasione per costruire davvero un territorio che metta al centro i territori di margine e che intrecci e renda compatibili i diversi paesaggi: urbani, rurali, naturali, tra città, colline e montagne. Gli esempi e le buone pratiche che vanno in questa direzione ci sono, basta guardare oltre le Alpi, tra tutti il sistema della mobilità intermodale in Svizzera, con ferrovie, cremagliere, impianti di trasporto a fune che da più di cento anni sono parte di un patrimonio iconico, paesaggio persino protetto dall’Unesco. Dove però la tradizione è anche spunto per l’innovazione, come si può vedere nei progetti dei famosi mezzi “postali”, che raggiungono in modo capillare i luoghi anche più nascosti, garantendo la mobilità pubblica e privata e i servizi logistici, integrando ferrovia, bus, impianti di trasporto a fune e persino i primi esperimenti di veicoli a guida autonoma connessi ai nodi delle infrastrutture.

 

 

Per quanto riguarda i servizi e le reti digitali, occorre consolidare l’unica vera eredità positiva che la Pandemia ci ha lasciato: digitalizzare in modo diffuso i territori, dando realtà all’idea della Smart City, che deve essere estesa al territorio, da considerare come una Smart Region: avvicinando così le parti più remote del Paese, e non solo la montagna: tutti i luoghi dove il turismo di prossimità è possibile, ideali per lo smart working, ora che lavorare fuori dall’ufficio è una realtà e cresce il popolo dei nomadi digitali.

In questa ottica, non sarebbe un risultato positivo se si attuasse una strategia che consolidi e valorizzi le reti di mobilità? Se le reti digitali favorissero migliori servizi, ad esempio per la sanità e la formazione? Se gli impianti di risalita fossero considerati impianti di trasporto e di supporto ai servizi di mobilità e di logistica? Se le stazioni di ski total fossero trasformate (anche) in luoghi per la formazione e per lo smart working?

La bellezza come denominatore comune

In chiusura, un’ultima parola chiave, importantissima: la bellezza. Se guardiamo ai territori che in questa direzione si sono avviati da tempo, soprattutto in Svizzera e nelle aree tra Italia ed Austria. Allora in molti luoghi, anche nelle pieghe più interne dei territori, troveremmo soluzioni innovative, sia per la fornitura di servizi agli abitanti che per l’accoglienza dei turisti, ma che hanno nella qualità, compresa quella estetica, un denominatore comune. Non possiamo accettare che di fronte all’urgenza, alla necessità, si possa dimenticare questo aspetto, che invece ci aiuta a rendere sostenibili, perché più capaci di durare nel tempo, anche gli interventi più audaci, anche nei contesti più pregiati e perciò fragili e delicati. Ebbene, questa tensione non può e non deve mancare: in un ciclo economico come questo, sarebbe un processo di “distruzione creatrice”, necessario, ma che credo potrebbe portare ad una prospettiva di sviluppo positiva e sostenibile.