Un numero di interessanti interventi, tra cui quello di Ivan Lagrosa su Mondo Economico, hanno riacceso il dibattito su tre temi di particolare rilevanza per l’Italia. Nell’ordine:
- (I) la disuguaglianza nei livelli salariali dei lavoratori dipendenti;
- (II) la disuguaglianza nei livelli di reddito disponibile a livello personale o familiare;
- (III) la scarsa crescita dei redditi italiani, sia lordi che disponibili, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, almeno.
Pur essendo collegate, le tre questioni non sono identiche ed hanno un grado di indipendenza che risulta cruciale comprendere per valutare cosa stia causando cosa, e in che senso il caso italiano sia o non sia anomalo nel panorama europeo. Questo nostro contributo intende fornire una iniziale risposta solamente al quesito (I) ma, per fare questo, occorre prima spiegare in che senso rispondere agli altri due quesiti richieda altri dati ed altre analisi da quella che si focalizza solamente sui salari del settore privato.
- Secondo Istat (Rilevazione sulle forze di lavoro) gli occupati totali sono 23,3 milioni (T4-2022; arrotondiamo al primo decimale) di cui 18,3 lavoratori dipendenti.
- Sempre secondo Istat (Occupazione regolare e irregolare per branca di attività e popolazione) nelle unità di lavoro i dipendenti pubblici sono 4,6 milioni che (ricalibrati agli occupati in 1) ci dà un valore di 4.5 milioni. Sottraendoli a 18,3 abbiamo 13,8 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato. Sono i salari di questi 13,7 milioni (su 23,3 di occupati) quelli a cui il punto (I) fa riferimento.
- Cosa fanno i 5 milioni di lavoratori italiani che non sono dipendenti né del settore pubblico né di aziende private? Secondo l’Istat circa 1,7 milioni sono imprenditori o professionisti (1,16 dei quali senza dipendenti); 2,8 sono lavoratori in proprio (gli “autonomi”, nella parlata corrente) di cui 890 mila con dipendenti. I rimanenti 500 mila sono coadiuvanti familiari o collaboratori.
- I 23,3 milioni di persone che stiamo considerando, però, non sono i soli percettori di reddito in Italia. Come sappiamo vi sono anche circa 16,1 milioni di pensionati e (negli anni per cui abbiamo dati credibili, ossia sino al 2022) circa 3,6 milioni di percettori del reddito di cittadinanza. Vi sono, infine, i percettori esclusivamente di redditi da impresa, capitale e rendite finanziarie, il cui numero esatto non ci risulta disponibile.
- Dato che svariati individui percepiscono due o più redditi assimilabili (fiscalmente) al reddito da lavoro e dato che molti cittadini percepiscono redditi da lavoro autonomo o d'impresa o finanziari non assimilabili al reddito da lavoro, occorre distinguere con grande attenzione il tema “disuguaglianze salariali nel settore privato” dal tema “disuguaglianze nei redditi delle persone e delle famiglie italiane”. La prima contribuisce alla seconda ma non la esaurisce in alcuna maniera.
- La disuguaglianza a cui (II) fa riferimento è quella fra i redditi disponibili (ovvero al netto di imposte e trasferimenti) di questo universo molto più ampio di cittadini. Secondo il Mef erano quasi 42 milioni gli individui che hanno presentato una dichiarazione del reddito nel 2021 a fronte di 13,8 milioni di salariati del settore privato!
- Infine, la questione posta in (III) riguarda la produttività complessiva di tutti i fattori di produzione italiana nella produzione annuale del PIL. Trattasi di questione complessa le cui connessioni con (I) e (II) sono di tipo causale: il livello della produttività e la sua distribuzione settoriale, territoriale e personale determina - prima dell’intervento fiscale e redistributivo dello stato - la distribuzione del reddito discussa in (III).
Chiarito questo, concentriamoci sui salari dei 13,8 milioni circa di lavoratori dipendenti nel settore privato per rispondere alla domanda (i). Istat ci fornisce dati certi nel rapporto sulle imprese: imprese dove leggiamo che a fronte di 17 milioni e 439 mila di addetti le microimprese (fra 0 e 9 dipendenti) ne occupano ben il 43.9% (ovvero 7.655.721 addetti).
Il gruppo degli “addetti”, tuttavia, non è costituito solo da dipendenti salariati ma da questi e datori di lavoro, ossia percettori di reddito di impresa. Proseguendo scopriamo che il 60.5% dei 7.655.721 addetti delle microimprese (ovvero 4.631.711) è ascrivibile alla categoria “lavoratori indipendenti”. Ne rimangono (7.655.721- 4.631.711) 3.024.010 e questi sono effettivamente dipendenti, ovvero salariati, delle microimprese italiane. Ne troviamo conferma nei dati forniti sempre dall’Istat per l’anno 2017 (gli ultimi disponibili) dove troviamo alla voce “lavoratori dipendenti” grosso modo lo stesso numero. Essendo circa 3 milioni su 13,8 milioni costoro costituiscono circa il 21.8% (meno della metà circa di quanto indicato da Ivan Lagrosa) dei dipendenti totali (esclusi quelli della Pubblica Amministrazione e figure diverse).
Cosa sappiamo dei salari di questi lavoratori dipendenti? Non molto, vista la pochezza delle fonti statistiche che Istat ed Eurostat ci forniscono. Ma questo non implica che si debba fare inferenza sui salari dell’altro 80% circa di lavoratori dipendenti usando una fonte che li dissolve in un universo di percettori di reddito che è circa quattro (4) volte più grande. Il dato Eurostat relativo ai decili salariali di occupati in imprese con più di 9 addetti ben si presta alla disamina di una eventuale disuguaglianza salariale catturando l’80% circa del totale idoneo. Non solo: nelle imprese con più di 10 addetti la nozione di “diseguaglianza salariale” ha un senso ben diverso da quello che assume quando confrontiamo il salario degli unici due dipendenti a quello del loro datore di lavoro, situazione tipica nei 4 milioni circa di microimprese che l’indagine Eurostat sui salari non cattura.
Come rispondono, dunque, i dati Eurostat alla domanda (I)? Le tabelle ed i grafici seguenti (estratti dalla pubblicazione Eurostat Earning Statistics) parlano da soli. In Figura 1 riportiamo il rapporto fra il valore medio dei salari nel nono e nel primo decile: solo Finlandia e Svezia, nell'Unione Europea, hanno un rapporto più basso del nostro.
Legittimo chiedersi se sia sempre stato così. Abbiamo quindi deflazionato i salari medi nominali del primo e nono decile, usando l’indice armonizzato Hicp che fornisce Eurostat, per gli anni dal 2006 al 2018. Il risultato è riportato (nella forma, questa volta, D1/D9 %) in Figura 2. Alla piccola diminuzione nel periodo 2006-2014 segue un recupero sostanziale nel 2018. Questo implica che, anche negli anni in cui il rapporto D1/D9 è più basso in Italia, il suo valore è comunque solidamente nella parte “egualitaria” della classifica dei paesi europei come è facile vedere invertendo i valori riportati nella tabella precedente.
Che non possa essere altrimenti si evince anche dai dati “grezzi” in Pps. Detto altrimenti: i salari “alti” italiani sono nella parte bassa della classifica per Paese quando guardiamo a decile D9, mentre i salari “bassi” italiani sono nella parte alta dell’analoga classifica per il decile D1.
Infine, vale la pena chiedersi se questi effetti non siano dovuti ad un qualche magico effetto di composizione per cui, nonostante i salariati mal pagati siano tanti in Italia, le medie dei decili a cui appartengono vengono distorte da qualche raro fortunato. Basta un po’ di riflessione che, per definizione di decili, questo è impossibile ma, crepi l’avarizia, tanto vale riportare il calcolo seguente, sempre di fonte Eurostat:
Anche in questo caso è facile vedere che l’Italia è fra i Paesi più virtuosi dell’Unione. Insomma, la risposta alla domanda (I) è univoca: nel settore privato la disuguaglianza salariale fra lavoratori dipendenti è, in Italia, molto bassa rispetto agli altri Paesi europei.
D’altro canto, i dati riportati da Lagrosa sembrano suggerire che qualche altra misura del reddito degli italiani indichi una disuguaglianza maggiore della media europea. E questa discrepanza deve avere una spiegazione. Ma questo è argomento per un diverso contributo.
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