Mentre scrivo queste righe sono seduta su una panchina, in un parco parigino: non quello, più celebre, della foto di apertura, ma un piccolo parco più vicino alla periferia, nel XX arrondissement, tra Avenue de Gambetta e il Père Lachaise. Sono le sei e mezza di sera, e ci sono tantissimi bambini, molti di più – ritengo - della media dei bambini che a quest’ora solitamente frequentano i giardinetti torinesi o milanesi.

Mi chiedo come mai, e così facendo accetto con piacere la proposta di aggiungere il mio punto di vista all’interessante scambio di prospettive iniziato il 20 aprile su Mondo Economico con l’intervento di Gianfranco Fabi (“Perché un vero rilancio delle nascite è ormai politicamente scorretto”), proseguito con gli spunti offerti in data 29 aprile da Ivan Lagrosa (Natalità e diritti civili, il guaio sta nel ragionare per dogmi”), Angelo Ciancarella (13 maggio, “Riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sugli affetti”), e ripreso ancora dallo stesso Fabi lo scorso 20 maggio (“Alimentare la speranza”).

Questo dibattito mi interessa e mi appassiona, come è giusto che sia per ogni questione pubblica, sì, ma anche “calda”, come sono in genere tutte le questioni etiche (in questo caso, tuttavia, come chi mi ha preceduto ha ben sottolineato, giocano un ruolo anche l’economia, la politica, la morale).

Le questioni «calde»

Le questioni «calde», come è quella della cosiddetta “denatalità” sono il regno del disaccordo. In questo caso il disaccordo è in primo luogo morale, cioè un conflitto di opinioni tra soggetti diversi, ma è anche un disaccordo genuino, ovverosia non risolvibile facendo semplicemente appello a considerazioni fattuali o semantiche. I disaccordi morali, in parole povere, sono un bel rompicapo, perché riguardano conflitti di valutazione (morale) tra soggetti diversi, uno dei quali giudica una certa situazione positivamente, e un altro negativamente. E sulle questioni “calde” nessuno di noi è sempre o subito disposto a cambiare il proprio punto di vista, né a “cedere” a soluzioni diverse da quella che ha in testa. Sulle questioni calde ci comportiamo tutti e tutte come i tifosi di una partita di tennis.

Il «disaccordo ragionevole»

Tuttavia credo molto nel disaccordo ragionevole (come risorsa di libertà), e spero, per un verso, che il dialogo avviato continui e, per un altro, mi impegno a distinguere, in questo contesto e per quanto mi riguarda, tra un piano teorico-morale e un piano etico-politico: mi affiderò all’etica pratica e pubblica, perchè insegna, perlomeno a me, come talvolta occorra procedere, in circostanze di disaccordo, oltre la teoria, dal momento che i principi non garantiscono, come sappiamo, univocità di soluzioni certe o presunte tali. Andare oltre la teoria non significa affatto rinunciare alle proprie convinzioni più profonde; al contrario, le convinzioni più profonde entrano a pieno titolo nello scambio di ragioni, e il nostro dialogo a quattro voci lo attesta.

Andare oltre la teoria significa invece ricercare la possibilità di compromessi, eventualmente perseguiti per ragioni pragmatiche o anche per la convinzione – essa stessa morale - che sia meglio un compromesso che lo stallo dovuto all’assenza e all’impossibilità di raggiungere un consenso a livello delle teorie.

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Però devo iniziare, e lo faccio mettendo in evidenza una rivoluzione antropologica in atto, e cruciale per il nostro tema.

I figli del caso

Appartengo alla cosiddetta generazione X, che per convenzione diffusa nel mondo occidentale descrive la coorte di coloro che sono nati tra il 1965 e il 1980. Sono, inoltre, figlia del caso: terza di tre figli, inaspettata, non voluta, nata solo grazie a quello che si potrebbe definire uno dei primi ginecologi obiettori di coscienza. L’incipit è personale, ma penso che descriva lo sfondo culturale più comune del secolo scorso, il Ventesimo, che il filosofo e sociologo francese Marcel Gauchet, ne Il figlio del desiderio[1] – definì come il secolo della scoperta del bambino reale, una scoperta supportata dalla nascita contemporanea della pediatria, della pedagogia e della psicanalisi.

In profondo contrasto, il XXI sembra aprirsi come il secolo della sacralizzazione del bambino immaginario: grazie principalmente al controllo della procreazione, il bambino è diventato un "figlio del desiderio": per la prima volta nell’avventura umana – scrive Gauchet – «i nuovi venuti sono concepiti in quanto individui in tutti i sensi del termine», secondo un processo di privatizzazione del processo di perpetuazione della specie, sostituito da una appropriazione soggettiva del processo vitale.

Se i bambini e le bambine, oggi, sono fortunatamente il risultato di una volontà espressa, sono anche quasi sempre esito di un progetto definito.

E questo, accompagnato da altri cambiamenti inediti e potentissimi, come il discredito della maturità, che porta all’ossessione di ‘restare giovani’, ha effetti potenzialmente drammatici, con ricadute sull’educazione, sul modo di concepire la famiglia e, soprattutto, sui meccanismi di definizione della personalità, dato che su questo bambino (o bambina) desiderato finiscono per pesare come macigni le aspettative dei suoi genitori e della società. È questa la "rivoluzione antropologica" dei nostri giorni su cui ci invita a riflettere Gauchet, su cui tornerò nelle conclusioni.

Denatalità: la Francia e la resilienza

Ma perché la Francia è il paese europeo che fa più figli? Ormai il caso italiano è noto: dagli indicatori demografici dell’Istat relativi al 2022, emerge che la natalità in Italia è al minimo storico: meno di sette neonati e più di 12 decessi per mille abitanti. Le principali cause della crisi della natalità vengono indicate dall’indagine negli stipendi bassi e nell'aumento del costo della vita (70%), nell'instabilità lavorativa e nella precarizzazione del lavoro (63%), nella mancanza di sostegni pubblici per i costi da affrontare per crescere i figli (59%), nella mancanza di servizi per le famiglie diffusi e accessibili a tutti (57%) e dalla paura di perdere il posto di lavoro (56%, il 61% tra le donne).

Tra le cause di fragilità dei legami affettivi, ai primi posti si collocano (con percentuali tutte superiori all'80%) egoismo, mancanza di comunicazione, difficoltà ad assumersi le proprie responsabilità, scarso spirito di sacrificio e incapacità di affidarsi all'altro (anche su questo punto tornerò).

Ma perché la Francia da anni ha il più alto tasso di fertilità di tutta l’Unione Europea (e riempie i parchetti)? Il dato infatti è costante, e si ripete ininterrottamente dal 2012 (fonti Eurostat): con 1,86 figli per donna, la Francia nel 2019 ha superato nettamente la media UE di 1,53 e ancora di più quella italiana, ferma a 1,27.

Una questione di fiducia

È una questione di scelte politiche, ma anche di storia, di cultura e, soprattutto, di fiducia. Secondo una approfondita indagine condotta da Secondo Welfare in Francia le politiche sono a sostegno non solo (e non tanto) della natalità, ma della genitorialità, e soprattutto della genitorialità sul lungo periodo: la politica familiare francese si concentra molto sulla conciliazione (perché, come è noto, i paesi in cui le donne lavorano di più sono i paesi in cui si fanno più figli), sulla fertilità e sulla lotta alla povertà familiare, con un sostegno globale in denaro, con servizi di educazione e cura per le famiglie con bambini piccoli, e con specifiche politiche fiscali anch’esse di lunga data.

E non si tratta solo dei primi anni di vita di figli e figlie. Un esempio su tutti: l’allocation de soutien familial, un supporto aggiuntivo per i figli con un solo genitore o che vivono con i nonni. In Francia tutti i sostegni permangono nel tempo, e questo elemento restituisce fiducia ad un modello-paese più nordico che mediterraneo, in cui ad un maggiore ruolo dello stato nel sostenere le scelte genitoriali corrisponde un modello familiare fatto di – come sostiene la sociologa Carla Facchini nei commenti all’indagine, “rapporti più allentati” che, dal punto di vista economico e identitario, rendono meno “pesante” la scelta dei figli, senza mai perdere lo sguardo benevolo verso i bambini.

Koreeda e la scuola nel bosco

Hirokazu Koreeda è un regista, sceneggiatore e montatore giapponese: al centro del suo cinema c’è sempre il tema dei legami personali e di quelli familiari in particolare: le sue famiglie sono regolari, irregolari, disfunzionali, molto infelici e molto felici, ognuna a modo suo. Ma il punto di vista del regista è sempre, sempre, sui bambini. Dei suoi film uno mi colpì in modo particolare, un film del 2004 intitolato Nessuno lo sa: a Tokyo il dodicenne Akira Fukushima si trasferisce con la madre Keiko, una giovane donna irresponsabile, in un piccolo appartamento della capitale. Di nascosto sono venuti anche i tre fratelli minori del ragazzo: Kyoko, Shigeru e Yuki. Un giorno la madre dei quattro ragazzini se ne va per inseguire l'uomo di cui si è innamorata lasciando al figlio maggiore una piccola quantità di soldi che finisce presto.

 

Il regista Hirokazu Koreeda

Con il passare del tempo la madre non si fa più vedere, non scrive più, le bollette non vengono più pagate e non ci sono più soldi per comprare da mangiare. Ma Akira non si dà per vinto e cercherà ogni modo per aiutare la sua famiglia. La storia si ispira a una vicenda realmente accaduta nel 1988, quando una madre lasciò da soli i cinque figli minorenni in un appartamento di Tokyo. I due terzi del film rappresentano il lento passare dei giorni dei quattro bambini e soprattutto la pesante responsabilità che grava sulle spalle del ragazzino, diviso tra la voglia di vivere una vita normale, con la ricerca di contatto con coetanei, i giochi, le letture dei manga nei negozi di fumetti, e il continuo accudimento degli altri fratelli nei bisogni primari.

Lo sguardo del regista osserva una vita ai margini e marginale, di un'infanzia non solo perduta, ma invisibile agli adulti, che non si pongono domande nel vedere dei ragazzini soli in mezzo alla strada, senza alcun sostegno da parte di un adulto, obbligati a una reclusione coatta, non solo fisica, ma anche emotiva. Quando i soldi, lasciati dalla madre ad Akira, finiscono, i quattro cercano in tutti i modi di soddisfare la ricerca di cibo in un agonico progredire dalla luce al buio, nell'illusoria attesa di un ritorno della madre. Koreeda riesce con levità a trasmettere la pesantezza della vita che schiaccia i bambini, e il loro sogno di fuga - e in particolare di Akira - è ripetuto in diverse scene in cui osservano in silenzio l'andirivieni di aerei che partono e arrivano da altri mondi, da mete immaginate e impossibili.

«Un bosco con me»

Tra la rivoluzione antropologica teorizzata da Gauchet e resa visibile e concreta dai film di Koreeda, e la capacità di resilienza dei francesi, aggiungo infine il mio (primo) tassello al dialogo a quattro proponendo un esperimento sul campo, un caso concreto, minimo, ma esemplare e paradigmatico del coraggio e della fiducia che oggi nel nostro paese sono sempre più rari: «Un bosco con me»  un progetto di educazione in natura dedicato a bimbi dai 2 ai 6 anni. Si svolge in outdoor, all’interno del Parco Nord e del Parco di Villa Litta, a Milano, dai primi di settembre a fine giugno.

L’obiettivo principale del progetto è restituire ai bambini il tempo per il loro gioco spontaneo, dove il bambino è il protagonista che decide cosa fare (o cosa non fare), con chi, dove e per quanto tempo. Attraverso il gioco spontaneo i bambini concepiscono il mondo, costruiscono relazioni con gli altri e conoscono loro stessi. L’adulto è un attento e costante osservatore, la base sicura disponibile nel momento in cui i bambini e le bambine lo richiedono.

Il bosco è l’ambiente proposto, perché ricchissimo di elementi destrutturati (legni, sassi, piume, foglie…), forme di vita e percezioni che stimolano tutti i sensi del bambino. Questo ambiente, vissuto in ogni stagione e con ogni tempo atmosferico, offre uno spazio dinamico, complesso e imprevedibile ed è proprio questo suo aspetto selvaggio che incentiva l’esplorazione e diversi tipi di interpretazione. Il bambino potrà sfruttare queste ricchezze seguendo i suoi interessi, motivazioni, curiosità trasformandoli a loro volta in “apprendimento autentico” e “sapere profondo”. Nel bosco mente e corpo lavorano al massimo delle loro potenzialità favorendo un sano sviluppo fisico, cognitivo, psicologico, emotivo, sociale ed ecologico.

Tra rivoluzione antropologica e resilienza i genitori italiani potrebbero scegliere il coraggio di mandare i bambini alla scuola del bosco di Francesca, dove ogni giorno si impara una visione differente delle cose e del mondo, un forte senso di identità e di alterità, ottimismo e fiducia.

Si impara, in altre parole, a sostenere una fertilità.

 

[1] M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Milano, Vita e Pensiero 2010. Si tratta di un saggio molto profondo in cui l’autore cerca di arrivare a comprendere la portata della trasformazione che ha subito la nostra società sotto l’impatto della modernità, e che porta al centro questa domanda: «In che termini l’umanità è cambiata, in profondità, dal fatto di essere frutto del desiderio?».