Sto monitorando la casella di posta con una certa ansia. Crescente. Lo so è un po’ presto, ma è irrazionale. Quella mail arriverà non prima di metà giugno, come ogni anno e in allegato troverò un F24, quell’F24. Il mio commercialista è affidabile e so che farà tutto ciò che è nelle sue possibilità per rendermi la pillola il meno amara possibile.

Sono una partita Iva forfettaria, con me il fisco è benevolo, inutile nasconderlo. La stessa Inps colpisce con relativa modestia. Eppure l’ansia rimane. Le ragioni sono facilmente riassumibili: ho un buon portafoglio clienti e questo è un bene. Il mio tempo lavorativo infatti è quasi saturo, farei persino fatica a curare le esigenze di un nuovo cliente. Eppure c’è un problema: il mio lavoro è pagato poco, molto poco. Il lavoro intellettuale, di scrittura, di creatività culturale vale sempre meno. Anche perchè se sei un freelance vai incontro a una sorta di selezione darwiniana quotidiana.

Le leggi del mercato (qualunque cosa voglia dire) sono di una chiarezza cristallina: fare il copy writer, il web content creator, il collaboratore di una testata, il social media manager significa essere pronto a retribuzioni orarie inferiori a quelle di una baby sitter. Non è un’iperbole. In un momento particolarmente cupo della mia carriera, ho fatto il baby sitter per sbarcare il lunario e mi sembrava che la paga fosse in linea con ciò che stavo facendo.

Le eccezioni, credetemi, sono davvero molto poche. La concorrenza nel vasto e variegato mondo della comunicazione digitale, è sfrenata (la vita di quella cartacea è appesa a un filo sottile). Poco conta il peso o il valore del tuo curriculum. Conta di più che tu sia uno smanettone, molto cheap e altrettanto smart. Dove “smart” non sta per intelligente o capace, ma ad “adattabile” a un listino prezzi in calo perenne.

Questo insieme di fattori porta a due conseguenze. La prima: nonostante il volume di ore lavorate, il mio fatturato è asfittico, ma non può crescere. La seconda: il fatturato mediocre non mi consente di mettere da parte contributi previdenziali in quantità tale da garantirmi una pensione decorosa.

Insomma, anche se il fisco è benevolo e l’Inps tutto sommato non rapace, il futuro che mi si delinea è precario. Galleggio, ma so che, con ogni probabilità, affogherò. Con i colleghi coetanei (freelance, ma non solo) è un discorso che torna con una certa regolarità. C’è pessimismo per il presente e preoccupazione per il futuro. Intanto, com’è giusto, paghiamo le tasse. Pur sapendo che i “diritti acquisiti” sono, per noi, una categoria concettuale che appartiene alla fantasia. Noi non abbiamo diritti acquisiti, se va bene siamo la gazzella che si sveglia nella savana nella speranza che anche il leone soffra di letargia.

Se è vero, e lo è, che le retribuzioni medie italiane sono ferme al palo da decenni, c’è un vasto, vastissimo sottobosco, di donne e uomini tra i 50 e i 60 anni che oggi sopravvivono come freelance della comunicazione solo grazie a una tassazione bassa e forfettaria. Quanti siamo? Non ne ho la più pallida idea. Se facessero statistica i colleghi che incontro, dovrei rispondere: decine di migliaia. Ovviamente spero di sbagliarmi.