I politici in carica devono trattare con un numero crescente di minoranze politicamente organizzate nella rivendicazione di diritti e doveri. Minoranze che si formano in genere su temi specifici, dai forti richiami emotivi.
Il nome tecnico di questa modalità di funzionamento della lotta politica è “sub-costituency politics” (1). In Italia abbiamo avuto in passato la vexata quaestio dell'acqua pubblica, poi quella delle quote rosa, ed ora abbiamo le trivellazioni. Si concedano tre digressioni “politically un-correct”.
1 - L'acqua arriva dal Cielo e … perciò è di tutti
L’acqua arriva dal Cielo certo, ma, per consumarla in abbondanza e senza alcun timore per la salute, si ha prosaicamente un costo. Essa va prima depurata e poi incanalata. Per far questo si deve remunerare il lavoro – ciò che è ovvio, ed anche il capitale, ciò che agli occhi della “subcostituency politics” dell'epoca pareva meno ovvio.
La soluzione migliore è perciò quella di distribuire l’acqua a tutti al minor costo possibile, con un’autorità che impedisce che si creino delle rendite. L’acqua può essere distribuita da società pubbliche o private, dipende banalmente da quel che esse offrono all’asta per l’assegnazione della licenza. L’assegnazione è fatta secondo regole dettate dal settore pubblico, che il distributore – pubblico o privato – deve seguire. Se l’acqua costasse troppo per alcuni, si potrebbero pensare delle soluzioni, come quella di non farla pagare sotto certe soglie di reddito.
Il tutto sembra ovvio. Tanto più che nessuno nel 2011 metteva in discussione la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili. Eppure.
Ecco l'obiezione al primo quesito referendario di allora, che voleva cacciare per principio dall’universo idrico il privato. L’acqua è un bene primario, per cui il servizio di distribuzione è servizio pubblico e universale. In virtù di tali caratteristiche, sono necessari ingenti investimenti per assicurarsi che tutti i cittadini abbiano accesso ad acqua pulita, con una rete moderna e senza perdite, e siano serviti da fognature efficienti. Tale necessità era ancora più impellente dal momento in cui in Italia un terzo di acqua veniva sprecato a causa di perdite nella rete idrica e gli investimenti inferiori di circa 70 miliardi di euro a quelli che servirebbero. Tutto questo in un contesto in cui la quasi totalità dei gestori era rigorosamente pubblica.
Ecco l'obiezione al secondo quesito referendario di allora, che voleva abolire nell’universo idrico la remunerazione del capitale. Si proponeva di abolire la remunerazione degli investimenti effettuati nel settore idrico. Ogni gestore (pubblico o privato che sia) prende a prestito i soldi a un dato tasso di interesse. Il costo dell’investimento è ovviamente pagato dalla tariffa versata dagli utenti, che copre il costo del lavoro e del capitale preso a prestito. Il referendum voleva annullare la remunerazione del capitale. In altre parole, ogni investimento nel settore idrico verrebbe realizzato in perdita. Quindi le aziende pubbliche – che nell’ottica dei referendari sono le uniche deputate a gestire il servizio – per realizzare gli enormi investimenti necessari per rendere l’acqua un bene accessibile a tutti, i soldi avrebbero dovuto stamparli nei sotterranei degli edifici comunali, oppure, far crescere i debiti delle finanze comunali.
2 - Una donna resta donna per sempre, come i diamanti
Le donne sono la metà della popolazione e quindi dovrebbero essere – a tendere – all’incirca la metà degli amministratori. Questa sembra essere la logica della legge sulle quote rosa. Una legge che si comprende ragionando così: se le caratteristiche dei componenti di una popolazione sono molto simili, allora gli organi di rappresentanza – alla lunga – sono distribuiti secondo la numerosità. Nel caso, la metà agli uomini, la metà alle donne. Se le donne sono meno della metà, allora si ha discriminazione, e quindi si deve imporre la loro partecipazione.
Negli organi d’amministrazione non sono rappresentati altri gruppi, non tanto numerosi quanto le donne, ma comunque sufficientemente numerosi. Per esempio, gli anziani, i giovani, coloro che hanno alle spalle studi modesti, i single non sono abbastanza rappresentati – si noti: rappresentati in quanto tali, ossia non per “merito”, ma per “condizione”. E dunque, perché mai le donne dovrebbero essere rappresentate – di nuovo: in quanto tali – con delle quote predefinite e gli altri no?
Si potrebbe pensare che se uno/una diventa ministro o consigliere d’amministrazione come rappresentante dei single, ma poi si sposa, debba dare le dimissioni. Oppure che sia incentivato/a a vivere more uxorio per restare ministro o consigliere. Al contrario, una donna resta donna per sempre.
Che una maggiore “segmentazione” sia ormai nelle cose si vede, oltre che dalla possibilità di combinare a volontà i colori e gli interni delle autovetture, anche dalle reti di distribuzione di prodotti finanziari. Negli Stati Uniti vi sono promotori finanziari specializzati nella relazione con i gay, con le minoranze religiose, con le vedove, e via dicendo. Nessuno però pensa di suddividere il consiglio di amministrazione sulla base delle caratteristiche – se una/uno è gay, se è mormone, se è vedova, eccetera.
E neppure le funzioni operative. Si può giungere a una conclusione perfida. Gli organi di rappresentanza sono considerati meno delicati di quelli attuativi. Nessuno transiterebbe su un ponte concepito da una vedova che lo ha progettato in quanto vedova, e non in quanto un'ingegneressa cui è morto il marito. Ma se una donna siede nel consiglio della società di costruzione del ponte in quanto donna, si pensa che poco o nulla cambi. Nell’antica Atene gli organi di rappresentanza erano a rotazione, ma le cariche operative, come il comando della flotta, erano attribuite sulla base della capacità (vera o presunta).
3 – Del trivellare, dei cigni neri, e di … Prometeo
Il referendum – di iniziativa regionale e non popolare, perché questo non ha raggiunto un numero sufficiente di firme, può essere sintetizzato così: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane – ossia fino a 22 chilometri dalla costa - anche se c’è ancora gas o petrolio?” Se vincesse il sì, gli impianti dovrebbero chiudere entro cinque/dieci anni. Mentre quelli che hanno appena ricevuto la concessione chiuderanno tra circa venti anni. Se, invece, vincesse il no, gli impianti potrebbero rinnovare la concessione per l’estrazione di idrocarburi fino all’esaurimento dei giacimenti. Da notare che le “royalties” versate all’erario italiano dalle compagnie petrolifere ammontano a circa 310 milioni di euro (dati 2014). Perciò i benefici sono pubblici, come è ovvio dal momento che quanto è stipato sotto terra è dello Stato, e non dei privati.
Perché mai si dovrebbe volere la chiusura degli impianti, peraltro ritardata nel tempo? Secondo i “No-Triv”, insieme alle varie associazioni ambientaliste, e con le nove regioni che hanno promosso il referendum, le trivellazioni andrebbero fermate per motivi ambientali – ossia per evitare un disastro ecologico. I sostenitori del sì ammettono, tuttavia, che un disastro ambientale di grandi proporzioni sia improbabile. Non si capisce, infatti, come questo gran danno si possa produrre, con le tecnologie e i controlli oggi a disposizione. Il disastro ecologico sarebbe allora – per chi promuove il sì - un “cigno nero”, ossia un evento a bassissima probabilità di palesarsi, ma con un impatto enorme. Dunque il referendum – a ben guardare - è sul “cigno nero”. Peraltro il “fattore climatico” è ormai argomento di portata mondiale.
Un gestore di bagni lungo l'Adriatico potrebbe temere questo evento, e dunque votare a favore, e diventare un “No-Triv”. Un gestore di trattoria piemontese potrebbe pensare che, se passa il famigerato treno, venderà meno panini, e quindi diventare un “No-Tav”. Nel caso del “No-Triv” abbiamo un calcolo dove la probabilità che si palesi l'evento negativo è bassissima, nel caso del “No-Tav” abbiamo un calcolo dove la probabilità che si palesi l'evento negativo è alta. Ma qual è il movente degli altri, di quelli che non sono né gestori di bagni né di trattorie?
Torniamo alla “sub-costituency politics”. Si agita un tema a forte impatto emotivo – come è quello dell'emigrazione, dove i numeri effettivi sono diversi da quelli percepiti - per ottenere uno spazio elettorale. Qual è il tema a forte impatto? La Natura, che ci è stata data, e perciò non è nostra, e dunque va difesa con le Energie-Rinnovabili, come gli impianti solari, i mulini a vento, eccetera, mentre la si deturpa con le Energie-Non-Rinnovabili – petrolio, gas, carbone. Anche quando non si ha modo di provare che le Energie-Non-Rinnovabili facciano danni, si vuole imporre lo stesso il principio dell'energia “pulita”, e quindi della “co-esistenza” e non del “dominio” della Natura.
Abbiamo a che fare (nientemeno) che con il rifiuto di Prometeo, ossia dell'autonomia dell'homo sapiens dalla “datità” naturale. Il quale Prometeo è – come noto - un titano che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, e che perciò subisce la punizione di Zeus. Il dominio del fuoco non distrugge la Natura, basta, infatti, stare attenti, mentre allontana l'umanità dallo stato di sudditanza (dalla natura, dagli dei, e quindi per estensione, dai poteri costituiti). Lo stesso vale per chi rifiuta la medicina, che in Natura non esiste.
Riferimenti
(1) Benjamin Bishin, Tirrany of the minority, The subcostituency politics theory of representation, Temple University Press, Philadelphia, 2009
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