La narrativa sui governi “buoni” e “cattivi” in materia di immigrazione riaccende le tensioni tra i paesi della “vecchia” e della “nuova” Europa, divisi negli interessi così come nelle visioni geopolitiche.
Il voto del 13 marzo in tre Land tedeschi ha spaccato i commentatori, in Germania e non: qualcuno come lo Spiegel titola addirittura “Così Merkel si è giocata la sua influenza in Europa”, qualcuno fa i conti un po' meglio e scopre che il sostegno alla cancelliera in generale, e quello alla politica di accoglienza dei migrati in particolare, in fondo ha tenuto: la CDU ha perso pochi voti, l'emorragia ha riguardato semmai la sinistra dell'SPD e della Linke, e nel Baden-Württemberg, dove la CDU ha subito i danni più pesanti, il suo candidato si era distanziato dalla politica di accoglienza, sostenuta invece dal partito vincitore, i Verdi. Un terzo degli ex elettori della CDU che hanno cambiato schieramento nei sondaggi dichiarano di averlo fatto proprio per sostenere l'apertura ai rifugiati. In altre parole, parlare di “referendum” sulla politica dell'immigrazione di Angela Merkel, e tanto più di una sua sconfitta è probabilmente eccessivo. Ma la crisi dei migranti ha comunque prodotto un fenomeno senza precedenti nel dopoguerra tedesco, l'insorgere dell'AfD, il partito di destra anti-immigrazione. Che dal nulla è entrato nei parlamenti di tutti e tre i Land, con numeri piuttosto importanti, e ha stravinto in Sassonia, dove con il 24% è diventato il secondo partito.
Questa performance della formazione, che porta nel discorso politico tedesco argomenti e retoriche che sembravano bandite dal salotto buono di Berlino, è un colpo alla narrativa che era andata affermandosi negli ultimi mesi, sui Paesi “buoni” e “cattivi” in materia di immigrazione. In un dibattito che assume inevitabilmente toni morali, considerata la gravità della crisi e il dramma di milioni di persone che si sta consumando sotto gli occhi degli Europei, la divisione in Paesi accoglienti e quelli ostili è passata nei dibattiti ai vertici UE come nei media, fino alla minaccia del premier Matteo Renzi di togliere i fondi ai membri dell'UE che non vogliono aprire le porte ai rifugiati: “O siete solidali nel dare e nel prendere, oppure smettiamo di essere solidali noi Paesi contributori. E poi vediamo». Ora si scopre che il Paese che ha guidato quando non imposto il modello dell'accoglienza europea, sfidando anche i propri vicini investiti dal fiume umano che si dirigeva verso Berlino, ha una parte non irrisoria della sua opinione pubblica che non condivide questo atteggiamento. E per Berlino e gli altri sostenitori della redistribuzione del fardello dei profughi diventa più difficile bacchettare i Paesi dell'Est Europa sulla scarsa solidarietà che manifestano.
La spaccatura sul problema dei migranti infatti passa in Europa lungo una linea divisoria che si è già manifestata su altri problemi e crisi recenti, dalla Grecia all'Ucraina e al rapporto con la Russia. È la divisione tra “vecchia” e “nuova” Europa, come l'aveva definita Jacques Chirac la prima volta che questo divario si presentò, nel 2003, con la guerra in Iraq. Fu allora che i “vecchi” europei scoprirono di aver accolto in famiglia dei membri che non condividevano la visione del mondo di Berlino, Parigi e Roma su alcuni punti fondamentali, che avevano alle spalle trascorsi diversi che li rendevano irrimediabilmente lontani su tutta una serie di dossier. A parte l'ovvia provenienza da una cultura politica totalitaria, che ha creato un gap ancora molto ampio nel livello di tolleranza e standard di correttezza politica: non è un caso che l'AfD mostra i risultati migliori in un Land della ex DDR, dove in tornate elettorali precedenti gruppi di destra avevano raccolto consensi.
Un problema che non è nato ieri e non verrà risolto domani, ma che la “vecchia” Europa non ha fatto nulla per risolvere, fino a che non è esploso nel dibattito sui migranti in una serie di accuse reciproche. La frase di Renzi riassume un sentimento diffuso nelle cancellerie dei membri storici dell'UE, dove i nuovi membri dell'Est vengono visti come beneficiati dall'allargamento del 2004, e tutto sommato in debito se non altro di gratitudine con Bruxelles e Berlino. Pochi si sono chiesti come questi atteggiamenti vengano visti da Varsavia o Praga. Dove non solo resiste una memoria storica di chi si sente essere stato “venduto” dagli occidentali a Stalin a Yalta nel 1945, con la conseguenza che tutto quello che è accaduto dopo il 1989 viene letto come un risarcimento dovuto. Ci sono delle offese più recenti, che bruciano ancora. Come il fatto di essere stati accolti nell'UE nel 2004 senza vedersi estendere però la libertà di movimento di Schengen, rinviata al 2007 e oltre per paura di vedere un fiume di immigrati minacciare il mercato del lavoro della “vecchia Europa”. Bruxelles cercò di rinviare ulteriormente l'apertura dei confini, con reazioni furiose dei nuovi membri: “Ci deve essere un chiaro impegno con i nostri cittadini a dar loro i diritti di europei, non possiamo addurre motivi tecnici”, disse all'epoca il ministro degli Esteri slovacco Jan Kubis. Nella memoria degli europei dell'Est era ancora fresca la campagna contro l'“idraulico polacco”, diventato in Francia il simbolo del No al referendum sulla Costituzione europea nel 2005. Il fatto che perfino il sindacato degli idraulici francesi smentì l'emergenza, dichiarando che in Francia c'erano sì e no 150 idraulici polacchi, con una carenza di posti di lavoro nel settore stimata in 6000 unità non ha impedito un tormentone mediatico con tanto di manifesti. Il referendum si concluse con una vittoria del No, che Polacchi e altri nuovi arrivati nell'UE accolsero con un comprensibile sconcerto. Sono passati più di 10 anni, ma frasi dei politici della “vecchia Europa” sulla prematurità dell'allargamento sono all'ordine del giorno, dirette di regola verso il proprio elettorato senza pensare all'eco che potrebbe avere nell'Est.
In fondo, con i nuovi membri dell'UE l'Europa ha mostrato lo stesso atteggiamento duplice che ora manifesta verso i migranti dal Medio Oriente e dall'Africa: da un lato, una retorica di solidarietà e integrazione, dall'altro politiche rigide sugli ingressi. Il numero straordinariamente esiguo, dell'ordine di poche decine, di immigrati ricollocati in base agli accordi intraeuropei, e la mossa dell'ultimo vertice UE verso la Turchia, con improvvise aperture di credito a Recep Tayyip Erdogan che dovrebbe riprendersi i profughi non hanno fatto che aumentare lo scetticismo dei Paesi dell’Est Europa (membri dell'UE o aspiranti tali) verso l'obbligo di solidarietà. Che nell'opinione pubblica di queste nazioni non viene avvertito. Anzi, vedere migranti accolti a braccia aperte con una disponibilità di mezzi e parole che gli abitanti dell'Est non avevano sperimentato aumenta soltanto il risentimento. L'Europa ex comunista non condivide i sensi di colpa per il colonialismo degli occidentali, anzi, semmai è propensa a mettersi dalla parte delle vittime e non dei colpevoli. È vero che in molti casi si tratta di Paesi con tradizioni passate di intolleranza non mitigate nel dopoguerra da governi democratici e dall'immigrazione, che per l'Est è ancora una novità. E' vero però anche che si tratta di Paesi ancora molto fragili economicamente e socialmente, i cui governanti non vogliono mettere a rischio stabilità raggiunte solo di recente. L'esposizione geografica – l'Ungheria, in quanto primo Paese UE dove approdavano i rifugiati dalla “rotta balcanica”, ha avuto di gran lunga il maggior afflusso di migranti in proporzione alla popolazione – ha contribuito a prese di posizioni drastiche, culminate nella chiusura dei confini. Ma soprattutto la bussola di molti Paesi della “nuova Europa” punta in una direzione diversa: il polo magnetico dei loro problemi è ancora collocato in Russia, e il ministro degli Esteri polacco Witold Waszczykowski ricorda che il suo Paese ha accolto dal 2014 quasi un milione di ucraini, con 250 mila permessi di soggiorno accordati solo nel 2014. Un flusso che soddisfa anche il bisogno di manodopera, considerato che la vicinanza storica, linguistica, culturale e in parte religiosa degli Ucraini li rende molto più facilmente integrabili degli eventuali Siriani e Afghani.
Tutti motivi per i quali strigliate come quella di Renzi non fanno che aumentare le tensioni tra “vecchi” e “nuovi” Europei, con questi ultimi che hanno reagito con toni molto stizziti al “ricatto” sui fondi, come è stato definito dagli Ungheresi. Ma qualche volta si crea l'impressione che anche i principali protagonisti della crisi dei migranti – che siano sostenitori o avversari dell'accoglienza – si stiano facendo sfuggire le prospettive reali del problema. Secondo i dati appena pubblicati dall'Eurostat, nel 2015 l'UE si è vista rivolgere più 1,2 milioni di richieste di asilo, soprattutto dai profughi siriani. Un numero senza precedenti, che ha interessato soprattutto la Germania (un terzo del totale), mentre gli sbarchi hanno creato un'emergenza essenzialmente in Grecia (900.000) e in Italia (160.000), lasciando sostanzialmente incolumi gli altri Paesi. Nel frattempo l'UE ha emesso quasi 2,5 milioni di permessi di soggiorno rilasciati per la prima volta. I dati dell'Eurostat per il 2014, raccolti e analizzati dal Centre for European Policy Studies (CEPS) di Bruxelles, mostrano però un quadro dell'immigrazione nell'UE molto diverso da quello mediatico: al primo posto tra i nuovi residenti europei ci sono gli Ucraini, seguiti da Americani, Cinesi e Indiani. I Siriani sono solo al quinto posto, preceduti dai Marocchini, e seguiti da Russi, Bielorussi, Brasiliani e Turchi. Che si sono aggiunti ai residenti europei, senza creare apparentemente nessun sconquasso sociale o crisi economica. Un'altra sorpresa viene dai Paesi che hanno accolto il maggior numero di stranieri: al primo posto c'è il Regno Unito, notoriamente famoso per posizioni rigide sull'immigrazione, con 568.000 (di cui 136.000 a cittadini USA), al secondo la Polonia, un altro Paese con reputazione di scarsa ospitalità. In generale, dal 2008 al 2014 – anni di crisi economica e riduzione dei posti di lavoro, sottolinea il Financial Times – l'UE ha accolto ogni anno 2-2,5 milioni di nuovi residenti permanenti, senza alcuna emergenza umanitaria. Numeri da tenere presente quando si viene investiti da un dibattito emotivo e polarizzato come quello sulla crisi dei rifugiati.
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